ALESSANDRINI VERSUS DI PASQUALE. Su e da le recenti opere in versi di Alessio Alessandrini e Marco Di Pasquale. Con una nota critica di Mauro Barbetti

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Alessio Alessandrini

Ha pubblicato: La Vasca (Lietocolle, 2008), XXII Premio Letterario Camaiore - Proposte Opera Prima, Somiglia più all’urlo di un animale (Italic-Pequod, 2014), I congiurati del bosco (Italic-Pequod, 2019), Azzimi dal becco (Polissena Fiabe e Poesie, 2023) e, recentemente, Come gli assiderati ricordano la neve (puntoacapo, 2025). Collabora come responsabile di collana al progetto editoriale di Arcipelago itaca Edizioni e con l’associazione culturale Umanieventi di Macerata.

 

Marco Di Pasquale

È presente in diverse antologie, tra cui Scrittura amorosa (Fara, 2008) e La nostra classe sepolta (Pietre Vive, 2019), oltre che in diversi siti internet italiani ed esteri (“Atelier”, “La poesia e lo spirito”, “Pordenonelegge”, “Poetarum Silva”, “Versante Ripido”, “Perigeion”, “Poesia del nostro tempo”, “Vatra, Revista Brasileira”). Ha pubblicato i volumi Il fruscio secco della luce (Vydia, 2013), Formula di vapore (Arcipelago itaca, 2017), Dai sentieri divorati (Transeuropa, 2019) e La mano del mondo (puntoacapo, 2025).

Svolge attività di divulgatore letterario in alcune associazioni (tra cui “Umanieventi”, di cui è Presidente), e direttore artistico di Festival, contenitori poetici e rassegne letterarie sul territorio marchigiano.

 

 

 

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Alessandrini versus Di Pasquale

 

Il termine “versus” in latino ha solitamente l’accezione di confronto, scontro, opposizione tra due termini, avvertiti su piani dissimili, quando non addirittura antitetici, oppure di direzione rivolta a. Nel senso in cui qui lo utilizzerò, invece, il “versus” (sostantivo) vuole richiamare il fare poetico, in base al quale intendo analizzare questi due autori sia per aree di vicinanza che per, eventuali, alterità.

Dico subito che mi pregio di essere amico e non banalmente conoscente di entrambi, di avere avuto con loro momenti di fraterna condivisione e scambio profondo, di quelli che fanno bene sia alla crescita del singolo individuo, che alla crescita e alla circolazione dell’idea di poesia di cui, come facenti parte di questa categoria (non certo protetta), abbiamo a cuore le sorti.

Vediamo dunque il tronco comune da cui parte il lavoro di questi due poeti fino ad arrivare ai rami più distanti tra loro.

Innanzi tutto, gli anni della formazione sono impregnati di uno stesso humus culturale: provenendo entrambi dal sud delle Marche, hanno frequentato la Facoltà di Lettere a Macerata dove si sono conosciuti (e riconosciuti) pur con una piccolissima discrepanza anagrafica (Di Pasquale è nato nel 1976, mentre Alessandrini è del 1974), poi nel periodo post lauream hanno di sovente collaborato e partecipato a varie iniziative culturali del territorio, fino a confluire dentro il progetto di Umanieventi nel quale sono entrambi, a diverso grado, coinvolti; finanche le ultime prove poetiche recano le stesse date: Dai sentieri divorati (2019, Transeuropa) e La mano del mondo (2025, puntoacapo), per Di Pasquale, e I congiurati del bosco (2019, Pequod) e Come gli assiderati ricordano la neve (2025, sempre con puntoacapo), per Alessandrini (escludendo il libro di haiku, Azzimi dal becco del 2023).

Iniziamo dunque a sfogliare le loro ultime prove editoriali.

Come gli assiderati ricordano la neve si presenta come un libro fortemente unitario, quasi un concept, leggendolo sembra che l’autore ci offra l’intera gamma del vivere attraverso una stessa lente che riporta tutto a un’immagine fondamentale: quella del biancore.

Biancore è la parola più reiterata, ricorre come un mantra in tutte le liriche, tranne che nel poemetto finale Il lungo giorno bianco, scritto durante il lock-down, con un comunque evidente rimando al primo termine.

Si potrebbe pensare che la raccolta sia un canto alla luce, un’esplosione di vitalità, un’immersione nelle infinite possibilità esistenziali. Nulla di tutto ciò: qui il biancore assume una connotazione negativa, il biancore è luce smorta, lattiginosa, dentro cui si stagliano le esistenze di tutti (ricordiamo che in fisica il bianco è considerato un’assenza di colore, un non colore). Questo biancore permea, confonde e appiattisce le vite, è il risultato delle sconfitte quotidiane, dei laccioli psicologici e sociali nei quali siamo tutti ingabbiati, dell’assuefazione alla realtà contemporanea e della stessa finitezza insita nella condizione umana, “...non abbiamo / nessun altro diritto nel / biancore che perderci / senza orientamento.

A ben guardare si rinviene nei versi un clima pre o post catastrofe, un’eco del primo Eliot, quello di The Waste Land e di The hollow men, “Siamo niente / Siamo il niente: / voce (im) paglia (ta). / Voce impigliata / a questa irreale / realtà.

A fronte di ciò, l’unica possibilità di resistenza è riposta negli affetti umani, nell’amore, nella possibile solidarietà fraterna “Ama: / dà un contorno / a questo in(de)finito”, qua e là compaiono oggetti salvifici che sembrano, come in Montale, chiaramente citato, poter squarciare per un attimo la cortina di biancore persistente, il male del vivere: una foglia d’acero rossa, il suono di un’armonica lontana, un filo di rame, la possibilità dunque di dare colore alla vita, “...come nelle metro affollate / lo zoppo rancore dello slavo / per noi anello montaliano”.

Il poeta, in fondo, non è altro che, per citare la raccolta precedente a questa, un congiurato, un resistente, alla ricerca di quel nocciolo di umanità che sembra quasi disperso, alla ricerca di un valore, di una verità che nella contemporaneità sembra sempre più parziale, incerta, sofistica “Nel biancore il segno / d'inchiostro / è crepa / sbiadita premura”.

Certamente la poesia di Alessio si svolge nell’alveo della lirica, ma della lirica più alta e radicale, quella che rifugge dal linguaggio più abusato, che rifugge sia dai facili sentimentalismi e personalismi, sia dalla comoda oscurità simbolica, non a caso chi parla usa sempre il noi e mai l’io e quando esorta, sposta la comunicazione verso un tu, quasi a eliminare ogni distanza, per assumere un tono più delicato e colloquiale di dirsi e farsi coraggio, di contagiarsi, “eppure ci basterà il tuo / di sorriso, a primavera / tutto quanto abbia le sembianze / di un portafortuna: / un contorno che scivoli intorno / come un abbraccio, una ringhiera / che plachi il crollo / l'avanzare inconciliabile / della sera”.

La lirica di Alessandrini si rivolge alla dimensione concreta delle cose da un lato e alla riflessione filosofica dall’altro, una lirica ricercata e musicale giocata su un sottile richiamo di rime interne e/o uso di assonanze o paronomasie, una lirica che avrà modo di restare, insomma, non una di quelle che inevitabilmente verranno spazzate via per troppo manierismo o ovvietà.

Apriamo ora il libro di Marco Di Pasquale: già visivamente si coglie una natura diversa nell’impaginazione dei testi, testi che tendono ad una maggiore espansione orizzontale e che sfociano qua e là in brevi prose poetiche; pur restando con un piede nella tradizione lirica, si coglie con l’altro il tentativo di calcare territori prossimi alla scrittura di ricerca.

Tuttavia il punto di partenza resta lo stesso, un reale che non dà spazio a forme ideali, che ci fissa in un’impasse esistenziale e che pare corrodere persino la possibilità di rapporti umani più aperti e veri.

Si intuisce questo sentire comune, pur se diverso appare l’abito esteriore del fare poetico: dove Alessandrini asciuga i versi per concentrare il significato e/o la ricerca di una possibile via d’uscita, Di Pasquale va più per accumulo (di dati, immagini, parole) per forzare linguaggio e significati alla ricerca di un varco, di una sua exit strategy (frequente qui è l’uso dell’enjambement, così come di slittamenti di senso). L’aspetto sociale, il “canto civile” appare diretto e riconoscibile, come nel brano prosaico d’apertura “l’uomo è lì, caduto sulle caviglie, senza rimedio per i quarant’anni, un baleno che lo sbilancia lasciando nessuna ricetta di lavoro o evacuazione del disagio l’uomo si rompe e non si riesce a restituirne l’integro suono, così si rinuncia, si flette...”, la scommessa di una possibile alternativa è sempre portata sul fronte dell’intervento poetico, sul suo azzardo, sulla sua forma di intimo gesto di ribellione “fossero i versi una mano / aperta a drizzare l’azione / che spezza la pace...”.

Se in Alessandrini domina il negativo del biancore, qui è la mano del mondo che, lungi dal risultare presenza amorevole o protettiva, cala con la sua pesantezza sulla realtà umana, “...questa / mattina sembra avvertire che la mano / del mondo può in ogni momento / caderci sulla spalla, affondarci...”.

I segni di un tempo infausto sono ben presenti, abbondano nei luoghi più normali, nei supermercati, nelle strade, nelle spiagge affollate, “...anche se non ami sentirlo / l’inverno piomberà su questo / anno, lascerà qualche ombrellone / per appendere la pelle stanca”. Sulla scia della lezione fortiniana, Di Pasquale dà testimonianza del nostro tempo, non indulge nel sé, non lo manifesta se non in relazione agli altri, anche qui domina il noi (o i verbi impersonali che ci rimandano a fenomeni generali in cui tutti siamo coinvolti), come direbbe lo stesso Fortini questa è una poesia dell’avvento, che alterna elegia e profezia, stasi e trasformazione. Non c’è mai ripiegamento, ma presa di coscienza e resilienza.

La possibilità di resistere è anche legata alla cura dell’amore, al suo vincolo salvifico, alla capacità, tutta femminile, di tessere tele di relazioni (alcune immagini riportano, non a caso, a Penelope), “...tu tieni la spola e lanci di là dall’oscurità il rampino che ci trarrà ad affiorare e riprenderci la strada...”.

La raccolta si chiude con la sezione più aperta alla speranza, Fa durare, una sorta di chiamata alle armi e insieme manuale di sopravvivenza, rivolgendosi a un tu, rendendolo partecipe, fratello, invitandolo alla resistenza “...difenditi / tra gli abbagli di lampioni / che inacidiscono i viali / mastica piano e fa’ durare.

Un lascito importante, anche quello di Marco, di una poesia costruita per far riflettere, per non essere consolatoria, di una poesia che nonostante il suo scarso appeal nei riguardi del mondo attuale, non abiura alla sua funzione di sonda lanciata nello spazio, di occhio reflex, capace di captare segnali minimi, di ipotizzare evoluzioni future, di individuare possibili minacce.

 

 

 

Mauro Barbetti

 

 

 

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Da COME GLI ASSIDERATI RICORDANO LA NEVE (puntoacapo, 2025)

 

 

 

Il nipote le cinge una mano

l’altra è del ragazzo. Lui

offre una lucida schiena:

s’innerva il biancore

fino alle braccia della

nuova generazione.

 

Riverbera nella stagnazione.

 

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Nel biancore lasciamo la vita alla porta.

Ne temiamo il contagio:

germi, gemiti, germinali.

 

Siamo sulla soglia sull’orlo

incandescente tra la rossa

voglia

e il cosa importa.

 

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Nel biancore ci deliziamo

della pausa interiore, illanguidiamo

senza alcuna intenzione

pavidi tuffiamo il nostro

corpo nel corpo altro,

ulteriore

 

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Se siamo a Tua immagine e somiglianza

ora che sei carne di neve

pagina bianca nel bianco totale

e nella nebbia si assottigliano

i sentieri, a che vale il grido

di valle in valle,

a che la porpora gialla

delle impronte senza traccia?

 

Siamo déi atoni, atei

           – nel biancore – senza faccia

 

 

 

Da LA MANO DEL MONDO (puntoacapo, 2025)

 

 

 

non facile ingoiare l’abitudine

allo svuotamento della casa

alle stanze che perdono abitanti,

come s’infiltrasse umidità nei tessuti

negli angoli deboli dei corpi

 

lo strato di voci è sempre più sottile

un filo di colore ma sbiadito

come s’addensasse dopo anni

la muffa delle colpe e l’abito

si contaminasse di scuciture

 

le fessurazioni ora si squarciano

impediscono l’incasso delle porte

nel vento crolla l’impalcatura

 

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negli incontri sfiorati avremmo potuto

spostare una spalla mostrandoci disposti

al contatto, a chiarire gesti fraintesi

aprendo un rito di parole, cortesie da tè

commentando pasticcini a sfoltire

la diffidenza – sarebbe parsa la distanza

solo una trappola a cui ci congratulavamo

di essere sfuggiti

                       invece le occasioni

sono tutte sfumate, il tè freddo nel lavandino

neanche una briciola è stata morsa

e per le scale non ci concediamo

l’educazione di un cenno,

un attestato di esistenza

 

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siamo certi, nessun volto ci somiglierà

ma almeno un movimento della voce

o un semplice disegno del pensiero

dentro un discorso che si era iniziato

e da qualcuno sarà pronunciato

 

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non ti stanchi la manutenzione

del sognare, non manchi il manovrare

 

contro il conveniente e il detestato

sia stanato il trucco dell’emozione

 

che si possa continuare a giocare