Da "ALLERGIA" di Massimo Ferretti

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Massimo Ferretti nasce a Chiaravalle nel 1935. Sin da piccolo l’endocardite reumatica lo costringe a ripetuti ricoveri ospedalieri. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale si trasferisce con la sua famiglia nei pressi di Belvedere Ostrense. La sua passione verso lo studio del pensiero di poeti come Rimbaud, Eliot e Montale lo spinge a scrivere i suoi primi versi. Ha con il padre un rapporto conflittuale, dettato dal suo scarso interesse per lo studio. Pier Paolo Pasolini pubblica su “Officina” alcuni estratti dalle sue prime prove in versi. Dietro pressioni paterne si iscrive a giurisprudenza a Perugia. La morte suicida di un suo cugino lo sconvolge determinando l’avvio di un lungo periodo introspettivo. Collabora con “Paese Sera”e “Il Giorno”. Partecipa anche ad un concorso come programmista indetto dalla Rai, ma le sue cagionevoli condizioni di salute non gli danno la possibilità di superare la selezione. Successivamente, i rapporti con Pasolini si incrinano a causa del suo interesse riposto per il Gruppo 63. A seguito della morte del padre è costretto ad immergersi nell’attività lavorativa. Studia e perfeziona a Londra la lingua inglese. Nel 1968 riprende a scrivere svolgendo anche l’attività di traduttore. Nel 1974 la morte lo coglie nel sonno. Riposa nel cimitero di Jesi.
In versi pubblica:

  • Deoso. Rappresentazione poetica(Siena, Edizioni Maia, 1954);
  • Allergia. Prefazione ad una giovinezza(Jesi, Tipografia Civerchia, 1955);
  • Allergia (1952-1962)(Milano, Garzanti, 1963; Premio Viareggio "Poesia, opera prima“ 1963). L’opera viene ristampata da Marcos y Marcos nel 1994 e da Giometti & Antonello nel 2019.
In narrativa pubblica i romanzi:
  • Rodrigo (Milano, Garzanti, 1963);
  • Il gazzarra (Milano, Feltrinelli, 1965).

 

 

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Da ALLERGIA

 

 

Anch’io sono il mare
 

Spolperanno le montagne fino allo scheletro del corallo
ruberanno la fiamma al fuoco
e violeranno l’aria fin dove sospira,
ma il mare resterà il mare:
l’eterna emozione
l’elemento senza futuro.
 
Si sanno le piaghe aperte dalle navi
i delitti delle reti
e i tatuaggi carnali dei pescatori di perle,
ma il mare non cambia colore.
 
Non dico questo
perché ho segreti di conchiglie ribelli,
e l’amo perché la sua bellezza non mi fa soffrire.
 
Da piccolo mi ci portavano per farmi crescere forte
ma la mia stella incrociava altre acque
e nel libro del buio stava scritto
che il volto delle meduse
lo avrei trovato nella gente di terra:
e gli sono cresciuto lontano
con la misera invidia per i suoi sereni peccati
fatti di sole e di carne spogliata,
e ho accettato la sua potenza,
i lividi muri alzati tra nuvolo e abisso,
e l’onda del nord senza sogni.
 
Ma non ho avuto pazienza:
e l’acqua è rimasta col sale;
non ho avuto pazienza
perché anch’io sono il mare.

 

 

Lode d’un amico poeta
 

Tu sei della stirpe di chi vince:
il male che scalfisci non ti tocca,
la tua maturità non ha timori –
ma non ripetermi che qui è la foresta,
che l’uomo è sempre una rivolta in atto,
che il verbo del poeta è la pietà:
una rondine sottratta alla corrente.
 
E un giorno non mi capirai.
 
Entrerò nella turba dei Falliti
con l’umiltà che sempre mi ha distinto;
brucerò tanta rabbia dentro il cuore
che l’inferno tremerà nel riscaldarmi:
e avrò anch’io un duro contrappasso:
sarò il bullone d’un ponte americano.
 
La tribù degli eroi delle parole,
ripiegata sui freddi tavolini
dove la carta brucia nella penna,
si presta a certi sbagli disumani:
ed ecco i fumatori di matite,
i coppieri dei calamai ammuffiti,
gli alfieri delle «leggi» del partito,
i sacrestani delle muse benedette:
una folla assurda e senza volto
che nuota nell’inchiostro
con la scienza della carta-calcante.
E la marea li mescola agli onesti:
ai profeti della giustizia anchilosata,
alle trombe medievali della Croce,
agli amanti delle immagini rapite.
 
Ma il tuo sangue non vive in questi lacci:
e io brucio stelle pel tuo canto vergine
turbato solamente dalla vita!
Io brucio stelle pel tuo verso barbaro
fermato nelle canzoni verdi
dell’uomo vivo, immerso nella terra.
Il vento di Provenza che lo scuote
è il rifiuto della pace degli antichi,
l’insulto alla vergogna del ricatto sociale,
l’urlo per la misura della morte.
 
Ma l’ansia di toccare il cuore al mondo
t’ha piegato al torpore della Lingua
che hai destato in difficili rime.
E l’Italia salvata nelle origini
rivive nel profumo della luce:
ed ecco i fiumi inquieti dell’infanzia,
la cupa adolescenza delle ombre,
gli ardori consumati nel silenzio,
i passi svuotati nelle strade,
la costante follia della Chiarezza,
la nostalgia invincibile dell’alba,
la solitudine accettata come un pegno
da risolvere in numeri di vita.
 
La tua origine è un’onda mostruosa
che ha radici negli abissi della luna,
il tuo pianto è una luce senza limiti
che libera dal buio esseri veri,
e il tuo furore critico
che incendia foreste filologiche
e scava negli angoli dell’anima
in fondo non conosce che una meta:
il tropico del canto corrisposto
dove il cuore è il calore della terra
e il popolo il palpito del mondo.


 

In trattoria

In questa trattoria di gente stanca
dove mangiare significa reagire,
dove la grazia d’una dattilografa
si percepisce nel tono delicato
d’un piatto di fagioli chiesto tiepido,
dove un viaggiatore analfabeta
emancipato per via dello stipendio
spiega a una turista anacoreta
che il rialzo dei biglietti ferroviari
dipende tutto da questioni atlantiche –
non ho ragione d’essere contento
se il cameriere lieto della mancia,
leggendo la commedia del mio viso
m’ha detto che ho una maschera da negro?

In questa trattoria di gente ottica
dove non so salvarmi dagli sguardi,
condannato al sentimento della morte,
serrato tra furore e timidezza
non ho ragione d’essere felice
quando divoro una bistecca che fa sangue?

Il mio complesso è una tragedia antica:
devo scrivere e vorrei ballare.

 

 

I colori del gelo
 

Nella mia vita il viaggio resta il segno
di ciò che doveva essere la vita
se l’avessi capita troppo tardi.
Ma ho capito tutto troppo presto
e ogni viaggio è uno spostamento
da una solitudine a un silenzio:
da un’attesa a un tacito possesso.
 
Non posso non fermarmi al corridoio
d’un rapido treno della notte,
pieno di tedeschi d’ogni sesso
e di reclute del nostro nuovo esercito.
 
– Dal congedo delle insegne luminose
dal patetico gergo dei consigli
salva, frau, questo provinciale!:
la tenerezza che sale da un abisso
è una luce che mi fa tremare,
la rivolta d’un reietto è una canzone,
il sole è il calore d’un relitto.
 
Sì, questa notte non sono entrato
perché sono un maschio in borghese
e non sono più un ragazzo
(«militari e ragazzi metà prezzo»):
sarò un alpino e avrò una penna nera,
non starò più attaccato a un finestrino
a decifrare teoremi neutrali
su estetiche statali e militari.
 
L’esercito amava alle mie spalle,
ma io non sono un soldato dell’esercito:
io sono un soldato della vita
e stanotte ho giocato una partita
molto più dura di quelle che faranno
i soldati che stanotte ti hanno avuta
e quelli che dormivano beati
nelle scomode amache improvvisate
con le retine dei portabagagli
e quelli incastrati nei sedili
tra tedeschi saturi di birra
e l’incenso dei piedi senza scarpe.
 
Davanti al vetro in cui ti specchi
per pettinare in pace i tuoi capelli
e mi chiedi perché non sono entrato
e mi dici che sarò un alpino,
stanotte ho guardato il mio destino.
 
La mia provincia verde di colline
la mia valle torbida di nebbia
il paese dove sono nato
la casa che mi ha cresciuto –
tornarono nel buio del paesaggio
che il treno divorava nella corsa:
venivo da loro e a loro ritornavo,
ma loro non mi offrivano la vita:
m’offrivano il teatro di me stesso
per monologare all’infinito
lucidando l’archivio degli errori,
vitali colori del mio gelo.