Da "DIARIO DI UN AUTODIDATTA" di Alfonso Guida

 

 

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Alfonso Guida (1973) è nato e vive a San Mauro Forte, in Lucania. Nel 1998 ha vinto il Premio “Dario Bellezza” per l’opera prima con la raccolta Il sogno, la follia, l’altra morte. Nel 2002 ha vinto il Premio “Montale” con la plaquette Le spoglie divise [Quindici stanze per Rocco Scotellaro]. Suoi versi sono apparsi su diverse antologie e riviste. Ha inoltre pubblicato Il dono dell’occhio (Poiesis, 2011), Irpinia (Poiesis, 2012), Ad ogni passo del sempre (Aragno, 2013), L’acqua al cervello è una foglia (LietoColle, 2014), Poesie per Tiziana (Il Ponte del Sale, 2015), Luogo del sigillo (Fallone, 2017) e Diario di un autodidatta (Guanda, 2025 - Finalista al Premio “Strega” Poesia 2025). Per “Avamposto” cura la rubrica Golpe.

 

 

 

 

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Da DIARIO DI UN AUTODIDATTA (Guanda, 2025)

 

 

 

 

AGNOSIA

 

Dal primo libro sporgeva la testa. Cambiava sesso, immagine, apparenza. Nascondeva il fardello, lo stridore. Povere panchine lasciate sole, tra le donne affollate di nidiate, tra le madonne dipinte con un ago d’abete e un nodo di crine sul tronco sfibrato di una betulla in disparte. Madonne senza luce. Donne apatiche. Suonavano rapsodie rap da Reipnol. Speranza corale, disperazione muta, cerimoniale di conferma di una fede nuziale, di un’unione mortale col sesso e col bene insalubre, di un’agonia di foglie e di comete decapitate, tutte convocate, dal mio sangue insonne, a testimoniare. Suore esultanti, allegre, col rossetto. Madri di minestre per gli stranieri della Caritas. Padri e figli schivi – l’impotenza, il vino, i campi – a fiorire. Mi spogliavo, nudo, per strada. MS, ragazzo da aspettare, da succhiare, legare stretto alla catena, al letto. Mi tormentava l’insonnia, la pena di non distinguere bene la strada. Procedevo alla rinfusa. Aspettavo la terra. Avevo perso non la casa, ma la terra. Parte di questa terra.

 

 

 

NUDO CON RACCONTO

 

La rabbia, per proteggersi. Il silenzio si volta indietro. Scandisci ogni grammo mordendo un ghigno. Ammucchi gli anni del giorno dopo.

 

 

 

Interno terzo tiburtino

 

Tutto divaricato. Dal cancello
nero all’aspidistra della garitta.
La pasta col tonno. Canzoni e feste
di sabato, via del Corso, il turismo,

di domenica… Sarei morto, all’epoca,
senza la vostra porta aperta, porta
di paese, ospitalità evangelica.


Me li ricordo tutti quei ragazzi
di piazza Bologna che nel ’90
gridarono, di notte, alla finestra,
la vittoria geniale della Roma,
mangiando panini, bevendo birra,
suonando la chitarra, improvvisando
goliardie. Eravamo vecchie tregue
presto finite, presto destinate,
come tutte le stagioni, a finire.


Non ci siamo più visti. Ci sappiamo,
vivi, risorti, stretti ad altre storie,
stretti a vedute da altre angolazioni,
da qualche parte, sorridenti in foto.


Mi dispera dover fare una strada
Lunga, ora, alle mie spalle. La finestra
Si affacciava, a picco, su Sant’Atanasio.

 

 

 

AMORI PESCATI DA UN FITTO TORBIDO 

 

La perversione analfabeta è gesto,

ma il vizio della relazione è sterco.

Voler perdonare. Insensato verbo.

Fuori strada. Incompatibilità.

Si dice questo. Con un tumulto etico

che scinde Dio in rivoluzione e ruggine 

morale. Nodi incrostati. Vecchiezze 

depositate al fondo di un esistere 

calcolato, astuto, preventivato.

Fuori traccia, il tema svolto. All’inizio,

mi sono confuso, sbagliando il compito.

Certo, ho dovuto fare un salto indietro 

fino al canto del mondo delle origini 

per staccarmi dal peccato di amarvi,

di amarvi, a uno a uno, al buio, come ognuno

mi ha chiesto e ha voluto che fosse amato.

Mi sto accorgendo ora di aver sbagliato

nel darvi sempre un senso e un imprevisto.

 

 

 

UN LONTANO RAGGIUNTO

 

Di notte, scrivo, accucciato in un limite
breve. Brindo a un finale aconflittuale.
Setaccio in bocca lingue di congiura.

 

Dove si affanna, ferma, una bandiera
slabbrata, smunta, di misericordia
mista a un trillo convulso di giustizia,
lì, mi areno, perdo le prime mosse
dell’alba contro il buio persistente
dell’estrema notte tarda a passare,
foresta smidollata, arnia fluitata.

 

Discorre, abbassa il mento, il mio silenzio
bambino incolpato, donna colpevole
di aver amato col suo sesso androgino
l’interno del suo seme, il sacramento
della sua discendenza. Donna sporca
di barocco miasma incestuoso frutto
del suo organo dimezzato, compiuto.

 

L’essente esibito in un corpo scenico
l’oziosa oscenità mentale di essere
sfidante assente al gioco degli appelli.

 

 

 

CONGEDO

 

La terra è un crollo, un abisso descritto
dantescamente da Caproni. Inizia
l’estasi, l’entusiasmo. T’incammini.
Scendi, prosegui. Altrove pianti il seme.
Rizza le papille un gusto di morte.
La vocazione nasce come prova.
Non è un teorema. Sei tu, col tuo dono,
col tuo mistero. C’è correlazione
tra volontà e sottomissione. L’attimo
muta in tema. Scrivi, porgi la guancia…

La verità ti accompagna nei secoli
di una domanda, la stessa, impossibile
da porre, muta, viva, come il fuoco
di un tedoforo spartano o la lotta
di un santo, chiuso in cella, col suo diavolo.

 

 

 

DIARIO DI UN AUTODIDATTA

 

La strada non c’era, ma ho cominciato
presto a camminare. Non c’era niente.
Solo un vuoto orrido da cui pendevo.
Questo sentirmi attinto da un coltello.
Mi sono svenato del dolore
solenne che colpisce le corolle
delle dalie. Mi sono innamorato
della visione delle mandrie sparse
nel deserto a Occidente. Ho amato i carri
con le iene imbacuccate, mute, subdole,
la mia foresta di equiseti arvensi
sotto le mura di cinta del vecchio
paese, un nugolo di case vuote
prese in affitto da cornacchie e taccole.

 

Chi muore perde potere. Chi resta
rinasce. Succede al figlio, se muore
la madre. Guarisce dal male. Smette
di urlare. Si interrompe il capogiro
degli emisferi cerebrali. Smette
l’eco di sfracellarsi contro i fianchi
della montagna interna, che proclama
la vendetta del pifferaio magico.
Questo diceva la zia, inzavorrata
dalle abiure del secolo dei lumi.

 

Non c’è che parsimonia
nell’annuncio dell’alba.
La strada ora si scioglie,
bianca. Le donne sputano
la pioggia riflessiva
di una giornata amara.