Da "DOPO CAMPOFORMIO" di Roberto Roversi


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Roberto Roversi è nato nel 1923  a Bologna, dove è scomparso nel 2012.
È stato scrittore, poeta, giornalista e libraio, oltreché, in gioventù, partigiano. Tra il 1948 ed il 2006 ha gestito la libreria “Palmaverde” di Bologna. Ha fondato e diretto le riviste “Officina” (insieme a Francesco Leonetti e a Pier Paolo Pasolini) e, successivamente, “Rendiconti”. Alcuni suoi versi sono diventati testi di canzoni messe in musica ed eseguite da Lucio Dalla, con il quale ha realizzato tre album ed uno spettacolo teatrale, e dagli Stadio. È stato anche direttore del quotidiano “Lotta continua”.
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Da Dopo Campoformio

 

 


Il tedesco imperatore

I. In Lombardia   II. Novara, Ivrea, Aosta   III. Lungo i muri   IV. Il riso dei tedeschi   V. Giorno d’aprile   VI. Haabiorg   VII. Tutto bruciato   VIII. Corbari   IX. L’azzurro delle Langhe   X. La piazza è in festa

  
Quando venni in Lombardia
ero giovane, allora.
Per strade ròse dai fischi dei vapori
il pianto di un ragazzo
migrò libero verso la frontiera;
l’ombra dei montanari saliva verso il cielo
e in tiepidi restaurants i camerieri
scoprivano agli ufficiali
distratti da un occhio adolescente
fragili zuppiere.
Nel rifugio della stazione,
mentre i treni bruciavano
bianchi neri contro le vetrate,
la donna appoggiò i chiari
capelli sul mio zaino.
Terra per eserciti
in fuga verso i monti.
Tremano al lume di luna le giovani foglie.
Austria, Svizzera, Francia alla frontiera.
 
In due giorni di cammino
sui laghi volarono,
col balzo delle trote, le speranze.
A Novara, a Novara;
oh a Novara, in un’osteria
avvinghiata da caserme bruciate;
un uomo grida sul prato della periferia,
al mattino era morto. Ivrea, Aosta…
su quelle strade marciavo e per i monti
frustato da tristezza, dai ricordi.
 
Ai quadrivi immobili magri tedeschi in tuta,
donne esultanti per gioia sventura.
“La guerra è finita. Incomincia la guerra.
Mio figlio è in Russia. A Cipro è mio figlio.
Mio figlio è in Africa. In Sicilia è mio figlio.
L’America a Genova tempesta.
I cinghiali fuggono, i tedeschi
lasciano Roma…”
Uccelli caduti nella polvere
le gelide mitragliatrici.
“Scheise Mensch!” ci odiano, guardando
le vie battute da uomini disfatti,
le donne sull’uscio delle case;
ogni fosso custodisce un sonno,
i casolari offrono l’acqua, il pane.
Fuggono simili a formiche
lungo i muri, picchiati dalla fame;
s’accascia l’Italia muggendo di dolore.

Quel tempo, rosso
sangue di bue appena macellato.
Fuoco sui paesi
della collina o persi dentro al mare,
su chiese, monasteri,
là dove Appennino torce il corso,
fra le canne delle paludi,
dovunque Italia spinge
la sua chioma azzurra.
Gettavano lo zaino contro l’uscio.
Il riso dei tedeschi era furioso, biondo.
Senza più sonno, agnelli al sacrificio,
i cittadini alle finestre a spiare
il passo della ronda per il mondo.
 
Buttato riverso
ascolto la terra sospirare.
La guerra sembra lontana,
così l’immagine dell’impiccato,
la sua ombra profonda nella polvere.
In un giorno d’aprile.
Sul lungomare fiori acerbi, duri,
muri da lunghe schegge sbriciolati,
il filo spinato arrugginito.
Una madre tiene sui ginocchi
il ritratto del figlio.
Poi nell’aria l’odore
di fuoco fra gli ulivi.
L’uomo salito sul palo
per tendere i fili della luce,
con il ferro e il cuoio alla cintura,
è un partigiano
dal viso magro di antico italiano.
 
Nel castello a Camogli il sergente Leone
pecorella di dio
beve sciampagna sdraiato
nudo sul letto di una contessa fuggita.
Entra dalla finestra
il volo fresco del mare.
Il sergente Leone
sfonda porta, lucchetto
e arriva alla cantina.
Mi innamorai di Haabiorg.
Guardandola bruciavo.
Lei correva al mattino
col biondo Cornino, l’arcangelo.
Correva nel bosco al tramonto.
“Fra poco avrà gonfia la pancia”,
ghignano i maledetti soldati.
Al lume di candela la serata finiva.
Partimmo: “Addio, addio,
addio mia bella, addio”,
cantarono i soldati.
Tutti nel fango sono dimenticati.
Ma lei non è scordata,
la sua persona splendida beata
è là nell’erba (lucciole delirare
all’ultimo addio). Lei sola, nel leggero
sciogliersi di riccioli, nel rischiarare
delle caute parole, perdona –
dopo tanti anni.
La sua giovinezza è ancora su quel mare.

Marco appare: “Il paese bruciato.
Guarda le case, tronchi senza vita,
macerie, polvere.
La forte gioventù morta, fuggita”.
Il sole indora la campagna,
cade dai nevai;
odore di un fuoco calmo dentro al vento.
La gente ferma sulla piazza.
M’azzanna il cuore una vespa infuriata.
“I mongoli affamati
dànno alla nostra carne questi morsi.
I tedeschi li armano, li avventano
ubriacandoli; bruciati dalla grappa
cadono urlando sulla strada,
prendono le donne come cani.
Pecore siamo nell’Italia morta”.
M’avvio nella valle solcata
da un fiume, con cime fuggenti,
stormire d’alberi,
ruscelli stenti migrano, fra onde
di foglie i castelli persi nelle ombre.
Case incendiate specchiano le nubi;
dentro ai paesi occhi e ossa d’uomini
tendono la mano, pellegrini
vinti da una sciagura.
Pendono le travi delle case.
“Le donne uccise”, dicono, “o scampate
al massacro, spente di paura
giacciono nel buio delle stalle.
Da uscio a uscio per fienili e case
i mongoli cercarono, fra le balle
di paglia, carrette rovesciate;
bruciò il paese, fuggono le donne
rauche disfatte pazze di terrore”.
I vigorosi uomini lontani.
Pagarono le donne con la vita
la breve età felice
e i neri capelli.
Tornano adesso i giovani strisciando
lungo le siepi della valle.

Nelle luride stalle di Romagna
il nome è bisbigliato (1), una candela
brucia intanto le foglie del dolore.
Trasformato in vecchietto questuò
sul sagrato, ridendo
al nemico in agguato
e lo infuriò, poi,
terribilmente vivo.
Era un ragazzo dall’ala lucente.
Solo, o con pochi, rapidi disfarono
il nemico sul ponte,
prima con scherno poi con rabbia e fuoco:
liberi nell’arena
lo colpirono alla fronte.
Per lui era viva la Romagna.
Questo giuoco di morte e vino
iniziò sui tavoli della sua terra,
calpestata da chiodi e da giovani fosse;
era lui il pellegrino
che guarda la divisa del nemico
nera contro la torre del Comune
e lento vuota un bicchiere di vino.
Per prati e campi verso Modigliana
intorno è tutto un cimitero.
Gli uomini sono sepolti nella spagna.

Passano i tedeschi nelle Langhe,
strisciano i piedi sull’asfalto.
Stridono ruote, battono i fucili
contro gli elmetti vuoti, per la strada
di campagna, dinanzi all’osteria
sporca di mosche, ancora insanguinata
per la morte di una donna fulminata
con bicicletta e pane
accartocciato, l’insalata, il sale,
da un colpo di pistola.
Un cavallo al galoppo, ombre, voci
correnti lungo l’argine, per le sponde
mescolate di fango e erba nuova.
Poi al mattino le Langhe sono azzurre
nell’abbraccio delle Alpi deserte.
 
Carri armati posano
sotto gli alberi, i negri
ridono, stendono le mani,
la gente nelle vie,
tutte le finestre al sole.
Giorno sacro d’aprile. Alti vocianti
feroci uomini nuovi.
“È finita la guerra”, questo
il popolo grida; gli anni si frantumano,
un mondo nuovo affiora ribollendo
dalla schiuma aspra del dolore.
La piazza di calce, bianca nell’aria d’aprile,
tacque; un uomo apparve (2) sul palco,
parlò poche parole aprendo
la nuova storia.
[…]
 

 

(1) Silvio Corbari, partigiano romagnolo, preso e impiccato in piazza nell’agosto del 1944. In Romagna, per definire un eroismo, si dice adesso: come ai tempi di Corbari.
(2) Ferruccio Parri, nel mattino di maggio del 1945.