Da "GIOVANNI RABONI - TUTTE LE POESIE (1951 - 1998)". Poesie sparse di Giovanni Raboni
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Giovanni Raboni è nato a Milano nel 1932 ed è morto nel 2004, a Parma, in seguito ad un attacco cardiaco. Prima di dedicarsi alla letteratura, ha studiato legge ed esercitato la professione di avvocato. La sua carriera di poeta inizia nel 1961 con Il catalogo è questo, presentato da un’introduzione di Carlo Betocchi. Le successive opere di poesia sono: Le case della Vetra (1966), Cadenza d’inganno (1975), II più freddo anno di grazia (1978), Nel gra-ve sogno (1982), Canzonette mortali (1987), A tanto caro sangue: Poesie 1953-1987 (1988), Transeuropa (1988), Versi guerrieri e amorosi (1990), Ogni terzo pensie-ro (1993), Devozioni perverse (1994), Quare tristis (1998), Rappresentazione della cro-ce (2000), Tutte le poesie (1951-1998) (2000), Barlumi di storia (2002), Ultimi versi (pref. di P. Valduga, 2006). Raboni è stato anche critico teatrale per “Il Corriere della Sera”. Per il palcoscenico ha scritto anche vari testi, l’ultimo dei quali, Alcesti o la recita dell’esilio. Notevole anche la sua attività di traduttore di testi importanti come i Fiori del male di Baudelaire e di tutta la Recherche di Proust.
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Da GIOVANNI RABONI - TUTTE LE POESIE (1951 - 1998)
(Milano, Garzanti 2000)
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Il rimorso di San Giovanni Battista
Silenzio. Udite. Io annuncio la sua morte
perchè sono di fronte a voi l’autore
della sua venuta e dei suoi giorni
disastrosi. Oh fossi morto prima,
nel deserto, come muoiono i cammelli
che si fidano troppo del proprio gozzo! Io così
della mia memoria, della memoria
che Dio mi concede sulle cose future.
Io non volevo ucciderlo
ma la mia fede si è tramutata in pietra o coltello, il mio battesimo
in violento scorpione. Mi perdoni
se troppo poco ho peccato! Io fiorisco di colpa
come la Vergine è fiorita in lui
nel grembo involontario.
Notizia
Solo qualche parola,
solo una notizia sul rovescio del conto
sbagliato dal padrone.
Forse è tardi, può darsi che la ruota
giri troppo in fretta perché resti qualcosa:
occhi squartati, teste di cavallo,
bei tempi di Guernica.
Qui i frantumi diventano poltiglia.
E anch’io che ti scrivo
da questo luogo non trasfigurato
non ho frasi da dirti, non ho
voce per questa fede che mi resta,
per i fiaschi simmetrici, le sedie
di paglia ortogonali,
non ho più vista o certezza, è come
se di colpo mi fosse scivolata
la penna dalla mano
e scrivessi col gomito o col naso.
Città dall’alto
Queste strade che salgono alle mura
non hanno orizzonte, vedi: urtano un cielo
bianco e netto, senz’alberi, come un fiume che volta. Da qui alle processioni
dei signori e dei cani.
Da qui alle processioni che recano guinzagli, stendardi
reggendosi la coda
ci saranno novanta passi, cento, non di più: però più giù, nel fondo della città
divisa in quadrati (puoi contarli) e dolce
come un catino… e poco più avanti
la cattedrale, di cinque ordini sovrapposti: e proseguendo
a destra, in diagonale, per altri
trenta o quaranta passi – una spanna: continua a leggere
come in una mappa – imbocchi in pieno l’asse della piazza
costruita sulle rocciose fondamenta del circo
romano
grigia ellisse quieta dove
dormono o si trascinano enormi, obesi, ingrassati
come capponi, rimpinzati a volontà
di carni e borgogna purché non escano dalla piazza! i poveri
della città. A metà tra i due fuochi
lì, tra quattrocento anni
impiantano la ghigliottina.
I manifesti
Chissà dov’ero, dove m’ero ficcato quando
le tue gambe hanno invaso la città.
Forse non guardo i manifesti.
Adesso paziente, maniaco ti do la caccia
di stazione in stazione
borbottando preghiere. Quello che non sei tu
esce dal fuoco o indietreggia se le tue
magre, livide dita si vede che una calza
tendono con increscioso pudore.
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Le volte che è con furia
che nel tuo ventre cerco la mia gioia
è perché, amore, so che più di tanto
non avrà tempo il tempo
di scorrere equamente per noi due
e che solo in un sogno o dalla corsa
del tempo buttandomi giù prima
posso fare che un giorno tu non voglia
da un altro amore credere l’amore.
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Ombra ferita, anima che vieni
zoppicando, strisciando dal tuo fioco
asilo a cercare nei sogni il poco
che rosicchio per te all’andirivieni
dei risvegli e degli incubi, agli osceni
cortei delle sciarade, così poco
che qualche volta quando arrivi il fuoco
è già spento, divelte le imposte, pieni
di insulsi intrusi o infidi replicanti
l’immensità della cucina, il banco
di scuola, il letto, dammi tempo, non
svanire, il tempo di chiudere i tanti
conti vergognosi in sospeso con
loro prima di stendermi al tuo fianco.
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Che in tutto fra tutte suprema sia
la legge del mercato, che a lei deva
subordinarsi restando utopia
per sempre tutto quello che solleva
l’uomo da se stesso sembra alla mia
mente quasi incredibile. Ma alleva
menti per crederci l’economia
trionfante, fa che ciascuna s’imbeva
di quel credo miserabile e creda
a esso fieramente come al più santo
vangelo; e non ha scampo chi rimpianto
dell’altro s’ostina finché non ceda
di schianto il cuore a provare e di noia
trema dove per altri è ottusa gioia.
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Mi sono distratto – oh, per poco, appena
quaranta, cinquant’anni – e mi ritrovo
di colpo, gli occhi abbarbagliati, in piena
vecchiaia, mia e del mondo. Niente è nuovo,
ora che le vivo, più delle cose
che ho vissuto aspettandole, aspettando
la vita, più delle, ma sì! famose
rose che ho colto come in trance, macchiandomi,
spesso e volentieri, di sangue … Eppure
c’ero anch’io quella volta, era il mio cuore,
erano i miei nervi, le mie giunture
a tremare di gioia e di terrore
per la tua venuta, sono sicuro
d’esserci già stato – o era già il futuro?
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Svegliami, ti prego, succede ancora
d’implorare in un sogno a questa tenera
età, aiutami, fa’ che non sia vera
l’oscena materia del buio, sfiora
allora davvero una mano il mio
corpo assiderato e di colpo so
d’averti chiamata e che non saprò
più niente.