Da "IL PIANTO DELLA SCAVATRICE" di Pier Paolo Pasolini

 

 

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Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 - Roma, 2 novembre 1975).

E' stato un regista, sceneggiatore, attore, poeta, scrittore e drammaturgo italiano. Artista ed intellettuale eclettico, si distinse in numerosi campi lasciando contributi anche come pittore, romanziere, linguista, traduttore e saggista.

Fu spesso al centro di forti polemiche e accesi dibattiti per la radicalità dei suoi giudizi, molto critici nei riguardi soprattutto della società borghese e di quella nascente dei consumi.

Fu assassinato in circostanze ancora da chiarire.

Tra le sue opere in poesia si ricordano soprattutto Le ceneri di Gramsci, La religione del mio tempo, Poesia in forma di rosa e Trasumanar e organizzar.

 

 

 

 

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Da IL PIANTO DELLA SCAVATRICE

Da LE CENERI DI GRAMSCI (Garzanti, 2015)

 

 

 

 

I

 

Solo l’amare, solo il conoscere
conta, non l’aver amato,
non l’aver conosciuto. Dà angoscia

 

il vivere di un consumato
amore. L’anima non cresce più.
Ecco nel calore incantato

 

della notte che piena quaggiù
tra le curve del fiume e le sopite
visioni della città sparsa di luci,

 

scheggia ancora di mille vite,
disamore, mistero, e miseria
dei sensi, mi rendono nemiche
le forme del mondo, che fino a ieri
erano la mia ragione d’esistere.
Annoiato, stanco, rincaso, per neri

 

piazzali di mercati, tristi
strade intorno al porto fluviale,
tra le baracche e i magazzini misti

 

agli ultimi prati. Lì mortale
è il silenzio: ma giù, a viale Marconi,
alla stazione di Trastevere, appare

 

ancora dolce la sera. Ai loro rioni,
alle loro borgate, tornano su motori
leggeri – in tuta o coi calzoni

 

di lavoro, ma spinti da un festivo ardore
i giovani, coi compagni sui sellini,
ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori

 

chiacchierano in piedi con voci
alte nella notte, qua e là, ai tavolini
dei locali ancora lucenti e semivuoti.

 

Stupenda e misera città,
che m’hai insegnato ciò che allegri e

feroci
gli uomini imparano bambini,

 

le piccole cose in cui la grandezza
della vita in pace si scopre, come
andare duri e pronti nella ressa

 

delle strade, rivolgersi a un altro uomo
senza tremare, non vergognarsi
di guardare il denaro contato

 

con pigre dita dal fattorino
che suda contro le facciate in corsa
in un colore eterno d’estate;

 

a difendermi, a offendere, ad avere
il mondo davanti agli occhi e non
soltanto in cuore, a capire

 

che pochi conoscono le passioni
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono

 

fratelli proprio nell’avere
passioni di uomini
che allegri, inconsci, interi

 

vivono di esperienze
ignote a me. Stupenda e misera
città che mi hai fatto fare

 

esperienza di quella vita
ignota: fino a farmi scoprire
ciò che, in ognun, era il mondo.

 

Una luna morente nel silenzio,
che di lei vive, sbianca tra violenti
ardori, che miseramente sulla terra

 

muta di vita, coi bei viali, le vecchie
viuzze, senza dar luce abbagliano
e, in tutto il mondo, le riflette

 

lassù, un po’ di calda nuvolaglia.
È la notte più bella dell’estate.
Trastevere, in un odore di paglia

 

di vecchie stalle, di svuotate
osterie, non dorme ancora.
Gli angoli bui, le pareti placide

 

risuonano d’incantati rumori.
Uomini e ragazzi se ne tornano a casa
– sotto festoni di luci ormai sole –

 

verso i loro vicoli, che intasano
buio e immondizia, con quel passo blando
da cui più l’anima era invasa

 

quando veramente amavo, quando
veramente volevo capire.
E, come allora, scompaiono cantando.

 

 

II

 

Povero come un gatto del Colosseo,
vivevo in una borgata tutta calce
e polverone, lontano dalla città

 

e dalla campagna, stretto ogni giorno
in un autobus rantolante:
e ogni andata, ogni ritorno

 

era un calvario di sudore e di ansie.
Lunghe camminate in una calda caligine,
lunghi crepuscoli davanti alle carte

 

ammucchiate sul tavolo, tra strade di
fango,
muriccioli, casette bagnate di calce
e senza infissi, con tende per porte…

 

 

Passano l’olivaio, lo straccivendolo,
venendo da qualche altra borgata,
con l’impolverata merce che pareva

 

frutto di furto, e una faccia crudele
di giovani invecchiati tra i vizi
di chi ha una madre dura e affamata.

 

Rinnovato dal mondo nuovo,
libero – una vampa, un fiato
che non so dire, alla realtà

 

che umile e sporca, confusa e immensa,
brulicava nella meridionale periferia,
dava un senso di serena pietà.

 

Un’anima in me, che non era solo mia,
una piccola anima in quel mondo
sconfinato,
cresceva, nutrita dall’allegria

 

di chi amava, anche se non riamato.
E tutto si illuminava, a questo amore.
Forse ancora di ragazzo, eroicamente,

 

e però maturato dall’esperienza
che nasceva ai piedi della storia.
Ero al centro del mondo, in quel mondo

 

di borgate tristi, beduine,
di gialle praterie sfregate
da un vento sempre senza pace,

 

venisse dal caldo mare di Fiumicino,
o dall’agro, dove si perdeva
la città fra i tuguri; in quel mondo

 

che poteva soltanto dominare,
quadrato spettro giallognolo
nella giallognola foschia,

 

bucato da mille file uguali
di finestre sbarrate, il Penitenziario
tra vecchi campi e sopiti casali.

 

Le cartacce e la polvere che cieco
il venticello trascinava qua e là,
le povere voci senza eco

 

di donnette venute dai monti
Sabini, dall’Adriatico, e qua
accampate, ormai con torme

 

di deperiti e duri ragazzini
stridenti nelle canottiere a pezzi,
nei grigi, bruciati calzoncini,

 

i soli africani, le piogge agitate
che rendevano torrenti di fango
le strade, gli autobus ai capolinea

 

affondati nel loro angolo
tra un’ultima striscia d’erba bianca
e qualche acido, ardente immondezzaio…

 

era il centro del mondo, com’era
al centro della storia il mio amore
per esso: e in questa

 

maturità che per essere nascente
era ancora amore, tutto era
per divenire chiaro – era,

 

chiaro! Quel borgo nudo al vento,
non romano, non meridionale,
non operaio, era la vita

 

nella sua luce più attuale:
vita, e luce della vita, piena
nel caos non ancora proletario,

 

come la vuole il rozzo giornale
della cellula, l’ultimo
sventolio del rotocalco: osso

dell’esistenza quotidiana,


pura, per essere fin troppo
prossima, assoluta per essere

fin troppo miseramente umana

[…]