Da "INVENTARIO PRIVATO" di Elio Pagliarani

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Elio Pagliarani è nato a Viserba, Rimini, nel 1927; ha insegnato a Milano prima di trasferirsi nel ’60 a Roma, dove è morto nel 2012. È fra i massimi poe­ti del nostro Novecento. I due «romanzi in versi», La ragazza Carla e La ballata di Rudi sono stati pubblicati nel 1960 e nel 1995 (La ragazza Carla è stata più volte riproposta, anche a teatro e al ci­nema; la sua ultima edizione è uscita dal Saggiatore nel 2016) e sono raccolti, insieme al resto dell’ope­ra poetica, in Tutte le poesie (1946-2005), Garzan­ti 2006; i testi per la scena sono in Tutto il teatro, Marsilio 2013. Lo stesso editore ha pubblicato nel 2011 l’autobiografia Pro-memoria a Liarosa. Dalla fine degli anni Cinquanta alla metà degli Ottanta è stato giornalista, all’«Avanti!» e a «Paese Sera», oc­cupandosi prevalentemente di critica teatrale; una prima raccolta dei suoi pezzi, scelti da lui stesso, è stata pubblicata col titolo Il fiato dello spettatore, da Marsilio, nel 1972. L’ultima rubrica è stata quella di bibliofilia tenuta su «Wimbledon» dal ’91 al ’93. Da ricordare anche gli scritti su amici artisti come Perilli, Novelli o Scialoja. Compreso nell’antologia a cura di Alfredo Giuliani, I Novissimi (1961), ha fatto parte del Gruppo 63. Dai suoi corsi­-laborato­rio di poesia degli anni Settanta e Ottanta sono pas­sati i principali autori attivi a Roma in quel tempo.

 

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Da INVENTARIO PRIVATO (Milano, Veronelli 1959)

 

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Se facessimo un conto delle cose
che non tornano, come quella lampada
fulminata nell’atrio alla stazione
e il commiato allo scuro, avremmo allora
già perso, e il secolo altra luce esplode
che può farsi per noi definitiva.

Ma se ha forza incisiva sulla nostra
corteccia questa pioggia nel parco
da scavare una memoria - compresente
il piano d’assedio cittadino in tutto il quadrilatero -
e curiosi dei pappagalli un imbarazzo
ci rende, per un attimo, dicendoti dei fili di tabacco
che hai sul labbro, e perfino una scoperta
abbiamo riserbata: anche a te piace
camminare? (e te non stanca? che porti
tacchi alti, polsi, giunture fragili
che il mio braccio trova a fianco,
il tuo fianco, le mani provate sopra i tasti
milanese signorina)

se ci pare che quadri tutto questo
con l’anagrafe e il mestiere, non il minimo buonsenso

              un taxi se piove / separé da Motta
              Ginepro e Patria / poltrone alla prima


ci rimane, o dignità, se abbiamo solo in testa
svariate idee d’amore e d’ingiustizia.

 

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Ti dicevo al telefono (di cui
più mi prendono le pause, gli imbarazzi
docili, e se ci udiamo respirare)
ti dicevo al telefono un amore
che urge e perché.

 

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È difficile amare in primavere
come questa che a Brera i contatori
Geiger denunciano cariche di pioggia
radioattiva perché le hacca esplodono
nel Nevada in Siberia sul Pacifico
e angoscia collettiva sulla terra
non esplode in giustizia.
                                           Potrò amarti
dell’amore virile che mi tocca, e riempirti
se minaccia l’uomo
sé nel suo genere?

O trasferisco in pubblico stridore
che è solo nostro, anzi tuo e mio?

 

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Se domani ti arrivano dei fiori
sbagli se pensi a me (io sbaglio se
penso che il tuo pensiero a me si possa
volgere, come il volto tuo serrato
con mani troppo docili a carpire
quando sulle tue labbra m’era dato
baci dalla città) non so che fiori
siano: te li ha mandati per amore
d’amore uno incontrato in trattoria
dove le mie parole spesso s’urtano
con la gente di faccia.
                                      Che figura
t’ho data, quali fiori può accordare
nella scelta all’immagine riflessa
di te?
           Non devi amarmi se ti sbriciolo
su una tovaglia lisa: e non mi ami.

 

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A dirli questi mesi sembra agevole
con il margine di rischio necessario
a chiamare la vita col suo nome:
primavera invocata tempestiva
fu tempesta, e in vista della terra
il naufragio balordo; giugno vissi
per rassegnarmi a perderti; è di luglio
la più cupa speranza di riuscire
a fare della morte un’abitudine.

 

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Sarà ora di chiudere, amore,
che smetta di fare la guardia al cemento
tra piazza Tricolore e via Bellini,
di coprirmi la faccia col giornale
quando ferma la E, di attraversare
obliqui la tua strada, di patire
anche a passarci in treno
in fondo a viale Argonne
vicino alla tua casa.

 

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Io non ti lascio alibi, ti amo
con la crudeltà necessaria per rischiare
la tua vita perché la mia è in gioco

ma d’istinto ti sei ritratta
dice Luciano che non hai sufficiente
vitalità.
              Di misurarti
a petto del mio amore ero certissimo.

 

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Amici spesso buoni mi deridono
Gianni sostiene che a leggere i miei versi
traspare che non amo o che non so
amare: se è vero un no
non ha sospetto che non so
vivere, Amore, e tu non vieni
ad insegnarmelo.

 

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Amore, la tua angoscia trasparente,
“potrei perdere le mani, gli occhi” dicevi,
trasparente timore dell’amore.

 

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Il verso “quanto di morte noi circonda”
apriva, e nella chiusa, isolato, bene in vista
“tu sola della morte antagonista”.

Ma già prima del termine di giugno
la mia palinodia divenne sorte:
nessun antagonista alla mia morte.

E sono vivo senza rimedio
Sono ancora vivo.

Marzo-novembre 1957