Da "LE BRACCIA LUNGHE LUNGHE" di Dorinda Di Prossimo
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Dorinda Di Prossimo nasce a Teramo per destino materno e custodisce paterne radici siciliane. Vive a Porto Recanati coltivando versi, respirando sale.
Ha pubblicato le raccolte: Nel sottocuore (Edizioni Akkuaria 2006); Leggere sull’unghia (Edizioni Tempo al Libro 2011); Quaderno millimetrato (Incerti Editori 2012); La notte la casa l’assenza (Edizioni Forme Libere 2015); Le braccia lunghe lunghe (Edizioni Passigli poesia 2022).
La sua opera in versi, sia edita che inedita, ha ottenuto numerosi riconoscimenti in occasione di importanti Premi letterari nazionali.
Suoi lavori sono stati inclusi in diverse antologie.
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Da LE BRACCIA LUNGHE LUNGHE di Dorinda Di Prossimo (Passigli 2022)
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Tu
sei la mia lingua minore,
apparente mio amore.
Quella rapita, schiva. Solitaria.
La mia pupilla madre,
che me ripara, cuce, orienta.
Tu
sei la lacrima che
m’allaga, quando in salvo ti
metti, e per te solo divori
i frutti di stagione.
Tu
Sei lo spericolato perdono.
In gola fino a sera. Quando
il soffitto è una sicumera.
Di come ero. Com’era.
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Meno duole l’ora che sporge,
meno il bagaglio mancato,
la mia testa ritta, transitiva,
consumante, come l’affanno, che in vita,
la vita schiocca.
L’atlantica mitezza
mi va di curare, la tana dei fogli che
scovo a sera. Il sonno disoccupato.
Il filo del disincanto. La bava d’un verso.
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M’illumina la mia virtuosa casa virtuosa.
Il sopravvento della trina di silenzio.
L’altalena delle ombre, il lenzuolo
al sole, prima del viaggio, la bocca bianca
dei muri, i quadretti da spolverare.
Ai bordi dei temporali dipingo, sempre, ancora,
le persiane, la possibile parola mattinale.
Alla vita mia, devo, l’ostinato cadere e
rimbalzare, l’accorciarsi del verbo sognare.
Più stretto, più mite. Da salva&guardare.
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Non lo dico che il tempo m’ammazza
come colpita nel petto d’un petalo
come una domenica senza pane
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Al ritorno
il rosa delle rose
dice il padre
le nocche all’aria
il fazzoletto
per sventolare il mare
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Quando leggo lo stordimento dei poeti
arrivo all’equilibrio dei fiori
anche sotto una persiana che sbatte
/ché di nulla si scompone il fiore,
né si turba il rumore dello schianto/
immobilità calza poesia. si raduna da sé
il chiodo che richiama dolore,
che addestra la mano a quietar la tenebra.
Quando scrivono i poeti, s’allertano i granelli
sotto terra. Le formichine riparano il respiro.
E vorrei anch’io così pregare, spiegare.
Ricordare. Tramandare. Di luce accaldare.
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Ti penso, madre, a scansare foglie,
dirmi: Si sta bene qui
in questo tonfo d’eterno mattino,
come una manciata di fiato felice,
come un cordone teso agli uccellini.
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Seguo le signore al mattino. Le loro solitudini sotto il fondotinta. Il passo battente, l’occhio ai semafori. Seguo il suono dei braccialetti, la coda riavvolta di capelli capovolti, i rosari di preghiere al mare, all’aria buona d’un novembre buono. Le inseguo col perdifiato della tenerezza. Magra di sonno, la sciarpa nuova, arancio e marrone. M’evoco la gentilezza d’una presentazione, come ieri, nel veloce mattino, guardando la scia dei camion. “Piacere“, ho detto voltandomi, “Mi chiamo Dora“. “Lucina“, ha risposto. Nella stretta di mano, nell’onnipotenza d’un sorriso. Rimasto.
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Magari, camminando, assaggiamo un fiocco
di nuvola. Respiriamo dentro dentro fino
all’ombelico del silenzio, la gobba ballerina
della pioggia. Magari scopriamo un pianeta.
Assai quieto e festoso pianeta. Con presunzioni
eterne. La casetta cassetta dei dolci dì, l’inganno
tenero d’un corpo tenero che al vento resiste.
Le braccia lunghe lunghe, d’un dio che schiuma
ogni terror dolore. E ci vendemmia accanto.
L’uva serale, il calice senza temporale.
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Notte da contar fili d’angeli
aria dare alla carità
Mettersi una fogliolina di rossetto
sbriciolar parole
fette d’addii
Ancheggiare
sin sulla polpa d’un bacio
e
dirsi
– Son’io l’insonne pioggia
una libbra di sete
Io sono come voi non mi vedete.