Da "LE CAMPANE" di Silvia Bre
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Silvia Bre è nata a Bergamo nel 1953. Vive da molti anni a Roma.
Tra le sue opere in versi si ricordano, tutte uscite da Einaudi: Le barricate misteriose (2001), Marmo (2007), La fine di quest’arte (2015) e Le campane (2022).
Sempre per Einaudi ha curato tre volumi di traduzioni da Emily Dickinson: Centoquattro poesie (2011), Uno zero più ampio (2013) e Questa parola fidata (2019).
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Da LE CAMPANE di Silvia Bre (Einaudi 2022)
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E se il punto di fuga sfonda il disegno
e lo diserta senza rigore
dove muore la prospettiva?
Si dispera, la figura, si ribella a se stessa
per saperlo, disfarsi è la sua resistenza.
«Un punto solo m’è maggior letargo
tutto il resto lo so e non lo so
resto in questo sospesa, in nessun luogo visto
congiunta all’incompiuto, muta, immersa».
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Forse non affioro in questo suono, ciò che sono
vuole entrare nel paesaggio, l’occhio
trasuda desiderio – come è sola la vista.
Dal tempo dove tutto muore sale l’immagine
una misericordia. La colpa
è rimanere in me senza volere
appesa a una corda vocale a rapire un’orma
vederla passare nell’attimo, chiamarla
fare senza.
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Come un’alba nera madornale che da est
cerca l’Atlantico nei giri
della nebbia fino alla curva,
e lì la spuma della mia presenza
frontale contro la dismisura.
Non so se resisto a questo male.
Che venga a prendermi ogni luce
o anche un giro di vento, che plachi
il silenzio della mia comprensione assoluta.
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Ti ho visto poi ti ho intravisto
poi ti ho smarrito in me là fuori
adesso sono te
e continuo
«Vieni qui, ora, tu che ascolti,
c’è questo fenomeno nel mondo
uno che dice vieni a qualcuno
tra le ombre che li sfidano, e fortune
e rami che li dividono come rami,
brevi rumori in cui crollare
per un sonno fulminante di frazioni
e sottomisure di un gran tempo –
un’intesa senza le persone.
Mi sono già sdraiata in questo antro a spiare la forbice
almeno un attimo prima del taglio
per incontrare tra le mille luci il dopo
che arriva senza lasciare fiato
mentre si ammira – vieni, ho solo te, sei tutto.
La riva sta per tornare com’era prima
dell’esile momento in cui parlo, sei tu che m’intrattieni
fino all’ultimo con questo discorso lungo –
ho seguito il suo filo per accostarmi
come un viso, un orecchio appoggiato contro il muro
con il cuore in tumulto con cui senti
il cuore di qualcuno. Che sia mio, o tuo
andiamo a rovinare la parvenza che li separa».
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l’anima è il mondo come è
che se io parlo suona.
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Bergamo
Pensala, inclusa nel corpo penitente
girato sotto per coprirsi con la schiena, in fuga
e tra le labbra la luce fragorosa che s’impenna
la parola eretica. Poi la segui, è un fiato.
Vuole che i suoi raggi s’impalino
e con il corpo fuso al mondo nascere domani
e non morire mai, così come beatitudine vorrebbe.
La musa del presente viene meno.
Ora monta la scia dei veggenti, hanno portato
la vampa stregata nelle ciglia l’attimo prima,
hanno saputo, e vanno, geni dell’aria estesa
alla primavera ossidrica, ai campi bestemmiati
che sbranano l’ombra, un colosso glaciale li guida
nel beta, nell’alpha, e poi l’occhio eterno.
E tu mantieni l’attimo soltanto, la gabbia chiusa, l’angelo
col fiato rotto in ogni gola, pensa nuovamente
questo guarire in trasparenza dove il cielo
sa il credo del tuo dolore e cedi alla miseria alata,
già ti devasti.
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Così percuote, viene
a svuotarci. La evochiamo
per sentire se ci solleva, spersi
senza ancora sillabe. Làsciati dentro
questo soffio diffuso mentre si distoglie.
Solo suonare l’hai sentita, sfamare i tempi armata
della lingua celeste dello sparire.
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Tra gli eletti dal male a guarirlo
nella lingua che lo dice, la cura
del ramo spinato che urtato da un fiato
sibila e ti tiene sveglio e ti addormenta,
non sai quale madre detta la misura
nell’azzurra lacuna da vedere
se contro la luce della morte
una navata canta la sua carità per questa gleba.
Suonata a senso dalle campane
per timone le tenebre
mi ruota nello scheletro la nube di una luna,
questa infamia fedele di beata.