Da "POESIE" di Lalla Romano

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Graziella, detta Lalla, Romano (Demonte - 1906; Milano - 2001) è stata una delle maggiori scrittrici italiane del Novecento.
Esordì come autrice di versi (la sua prima raccolta, Fiore, è del 1941), ma si dedicò più assiduamente alla narrativa: da Le metamorfosi (1951) a Maria (1953), fino a Le parole tra noi leggere (1969, premio Strega) e ai più recenti Un caso di coscienza, Ho sognato l’ospedale, Poesie (forse) inutili.
Einaudi ha pubblicato, a cura di Cesare Segre, un’antologia delle sue poesie edite.
 
 

 

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Da POESIE (a cura di Cesare Segre - Torino, Einaudi 2000)
 
 
 

 

Amore
 

Se negli occhi mi guardi, non ascolto
le tue parole;
altre parole dicono i tuoi occhi,
anzi una sola:
la più dolce, la sola che intendo.
Ma pur la temo:
ché se poi taci, ancor chieggo parole.
 
 
 
Distacco
 

Soffre il fiore strappato dal cespo?
Forse dolgono i gambi recisi,
più non guarda beata nel sole,
stanca piega la bella corona.

Ed a me non è ignoto quel male;
anch’io so come duole ogni vena,
quando i polsi tremanti ho staccato
che il tuo collo cingevano, amato.
 
 
 
L’Autunno
 

Come una miniera inesplorata
giace il favoloso tesoro
del tempo;
e i pingui soli d’autunno
rigurgitano come forzieri
di gioie non possedute.
Le stagioni come la musica
propongono temi inesausti.
Sazi i giorni defunti
lasciano un’eredità intatta
che non possiamo dilapidare.
 
 
 
Andiamo d’inverno in mezzo al bosco
il bosco intorno è bianco e silenzioso
un abbraccio caldo e cieco ci chiude

Ci sciogliamo lenti dal sogno
con gli occhi aperti smarriti
vediamo intorno senza fine il bosco
gli alberi dolorosi il cielo freddo
la neve perdutamente uguale

Incombe un consapevole silenzio
 
 
 
Non chiedere
profumo di fiore
quando io posso darti
frutti d’autunno

Non ricusare di nutrirti
poiché l’inverno è alle porte
e già i santi vecchi
hanno levato la fronte
a contemplare l’eterno

Noi figli dell’attimo
beviamo l’ultimo vino
 
 
 
Musiche nascono e muoiono
sono ancora parole
soli ardono si spengono
sono ancora tempo

Solamente il silenzio
oltre il gelo dei mondi
oltre il solitario passo dei vecchi
oltre il sonno dimenticato dei morti

solo il silenzio vive
 
 
 
Giovane è il tempo
 

Come un fanciullo
cade ogni sera addormentato e stanco
e noi vediamo illanguidire il cielo
lontano, dietro cupi archi di foglie

Si ridesta felice
mentre intatto
sugli assorti giardini e sulle ville
emerge dalle nere ombre il mattino
 
 
 
Io sono in te
come il caro odore del corpo
come l’umore dell’occhio
e la dolce saliva

Io sono dentro di te
nel misterioso modo
che la vita è disciolta nel sangue
e mescolata al respiro
 
 
 
Un suono profondo è nel sangue
 

Io lo seppi quando le tue mani
toccarono la prima volta le mie

Da quel giorno ascoltammo
quasi un vento salire
col mugghio di un organo
fin che alla fine domati
ci piegò, come spighe mature, quel vento
 
 
 
Soltanto con te, straniero,
posso parlare nella mia lingua
poiché anche tu vieni di lontano
e il nome della terra l’abbiamo scordato

Non è necessario, come credono i più,
dire parole meravigliose
anche le più semplici e usuali
sono parole d’amore
nel dialetto nativo
 
 
 
Il richiamo

Nasce dalla mia pena questo canto
che sale nel meriggio sonnolento
più accorato di un pianto?

Io tenevo segreto il mio pianto,
e ritorna più vasto e più lento.

S’è mutata in aperto lamento
la gelosa amarezza del pianto:

e il richiamo profondo vi sento,
che risponde nel muto mio pianto.
 
 
 
Nessuno può derubarci della gioia
la nostra gioia sotterranea
come tenera acqua
come vena di roccia