Da "SERIE OSPEDALIERA" di Amelia Rosselli. Versi scelti

 

 

 


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Amelia Rosselli (Parigi 1930 - Roma 1996), figlia dello storico e filosofo antifascista Carlo Rosselli e di madre inglese, è vissuta in Francia, Inghilterra e Stati Uniti prima di stabilirsi a Roma, dove è morta suicida.

È stata una delle maggiori voci del novecento letterario italiano e non solo.

 

 

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Da SERIE OSPEDALIERA (Milano, Il Saggiatore 1969)

 

 

 

 

 

Tènere crescite mentre l’alba s’appressa tènere crescite

di questa ansia e angoscia che non può amare né sé né

coloro che facendomi esistere mi distruggono. Tenerissima

la castrata notte quando dai singulti dell’incrociarsi

della piazza con strada sento stridori ineccepibili,

le strafottenti risa di giovinotti che ancora vivere

sanno se temere è morire. Nulla può distrarre il giovane

occhio da tanta disturbanza, tante strade a vuoto, le

case sono risacche per le risate. Mi ridono ora che le

imposte con solenne gesto rimpalmano altre angosce

di uomini ancor più piccoli e se consolandomi d’esser

ancora tra i vivi un credere, rivedevo la tua gialla faccia

tesa, quella del quasi genio – è per sentire in tutto

il peso della noia il disturbarsi per così poco.

 

 

*

 

Di sollievo in sollievo, le strisce bianche le carte bianche
un sollievo, di passaggio in passaggio una bicicletta nuova
con la candeggina che spruzza il cimitero.

 

Di sollievo in sollievo on la giacca bianca che sporge marroncino
sull’abisso, credenza tatuaggi e telefoni in fila, mentre
aspettando l’onorevole
Rivulini mi sbottonavo. Di casa in casa

 

telegrafo, una bicicletta in più per favore se potete in qualche
modo spingere. Di sollievo in sollievo spingete la mia bicicletta
gialla, il mio fumare transitivi. Di sollievo in sollievo tutte

 

le carte sparse per terra o sul tavolo, lisce per credere
che il futuro m’aspetta.

 

Che m’aspetti il futuro! Che m’aspetti che m’aspetti il futuro
biblico nella sua grandezza, una sorte contorta non l’ho trovata
facendo il giro delle macellerie.

 

 

*

 

Questo giardino che nella mia figurata
mente sembra voler aprire nuovi piccoli
orizzonti alla mia gioia dopo la tempesta
di ieri notte, questo giardino è bianco
un poco e forse verde se lo voglio colorare
ed attende che vi si metta piede, senza
fascino la sua
pacificità. Un angolo morto
una vita che scende senza volere il bene
in cantinati pieni di significato ora
che la morte stessa ha annunciato con
i suoi travasi la sua importanza. E nel
travaso un piccolo sogno insiste d’esser
ricordato – io son la pace quasi grida
e tu non ricordi le mie solenni spiagge!
Ma è quieto il giardino – paradiso per scherzo
di fato, non è nulla quello che tu cerchi
fuori di me che sono la rinuncia, m’annuncia
da prima doloroso e poi cauto nel suo


crearsi quel firmamento che cercavo.

 

 

*

 

Luce sulla tua testa cade incerta, ma

io ti vedo lo stesso; credi in me ch'io

ti veda sempre eguale.

 

La luce ora non scende più molto chiara

sulla tua fronte incerta, il suo paesaggio

è tutto mio.

 

Hai luce dorata negli occhi che sfuggendo

non possono capovolgere la tua sorte

benefatta dal mio sguardo loquace la

mattina che ti incontrai, danzando, vicino

a quel tuo capezzale.

 

Vicino a quel tuo capezzale piangeva

la madre ed ero io che ti guardavo stringere

le palpebre.

 

A singhiozzi quasi tu rinasci, con un'erba

medica in mano vorrei ricompensarti di

quella pena provai a quel tuo capezzale

danzando la mattina quando avevo sonno

delle tue palpebre pesanti che rifiutano

alzarsi alla danza.

 

Ma tu non danzi anzi ti riposi steso

sul lettino d'ospedale dove c'incontrammo

fu un baciamano cortese.

 

 

*

 

Parole nude sul tronco dell'albero, nuda 

vi sovrasto, pura l'intenzione, l'esegesi

non richiama altri esegeti. Basta che

esca dal tuo richiamo, la vita in corollari

non s'espone senza causa.

 

Hai fiamme nella tua bocca e sei la luna 

stessa, hai occhio nella bocca per purificare 

questo singulto, che ti chiama, con le 

lettere del nome.

 

Ho posto il tuo nome dentro un cuore 

che s'accerchia attorno un tronco, la

scorza invece tiene sempre a te, e non

ti travalica il monte.

 

Il gesto impuro sembra tocchi mete inconsulte; 

tuo nome resta allacciandosi col vuoto 

ti pongo scritto sulla scorza dura,

e mantieni il tuo voto.

 

 

*

 

Avvezza al sogno, al sonno, al sole

avanzare spogli di gloria, un ticchettio

di scarpe sul selciato.

 

Poi incantarsi della medesima farsa

un rampollo d’una famiglia vivente

che sparge i benvenuti agli inferiori

vivendo la vita.

 

Che spende tutt’attorno in casta

sollecitudine il suo comando: non

bestemmiare in fiera.

 

 

*

 

Attorno a questo mio corpo
stretto in mille schegge, io
corro vendemmiando, sibilando
come il vento d’estate, che
si nasconde; attorno a questo
vecchio corpo che si nasconde
stendo un velo di paludi sulle
coste dirupate, per scendere
poi, a patti.


Attorno a questo corpo dalle
mille paludi, attorno a questa
miniera irrequieta, attorno
a questo vaso di tenerezze
mal esaudite, mai vidi altro
che pesci ingrandire, divenire
altro che se stessi, altro
che una incontrollabile angoscia
di divenire, altro che se
stessi nell’arcadia di un
mondo letterario che si forniva
formaggi da sé; sentendosi
combattere, nelle vacue cene
da incontrollabili istinti
di predominio: logori fanciulli
che si stiravano 
altre membra
pulite come il sonno, in vacue
miniere.