Dal DISCORSO PER IL CONFERIMENTO DEL PREMIO NOBEL di Josif Aleksandrovič Brodskij

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Josif Aleksandrovič Brodskij (Leningrado, 24 maggio 1940 - New York, 28 gennaio 1996) è stato un poeta, saggista e drammaturgo russo naturalizzato statunitense.
È considerato uno dei maggiori poeti russi del novecento.
Fu insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1987 e nel 1991 fu nominato poeta laureato.
Scrisse principalmente in russo, fatta eccezione per i saggi, che scrisse in inglese.

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Da Dall’esilio (piccola biblioteca Adelphi, Milano, 1988)

 

     I
     Per qualcuno che ama a stare sulle sue, per qualcuno che per tutta la vita ha dato più importanza alla propria condizione privata che a un ruolo socialmente significativo, e che preferì andarsene lontano – lontano dalla sua madrepatria come minimo, perché è meglio andare incontro a un totale fallimento in democrazia che essere un martire o la crema della crema in una tirannia – per tale persona trovarsi all’improvviso in questa tribuna è qualche cosa di disagevole e una difficile esperienza. Questa sensazione è aggravata non tanto dal pensiero di quelli che sono qui davanti a me quanto dalla memoria di quelli che sono stati bypassati da questo onore, quelli cui non è stata data questa possibilità di indirizzarsi “urbi et orbi”, come essi dicono, da questa tribuna e il cui silenzio cumulativo è una specie di silenzio, se non un avvallo, per poter esprimersi attraverso chi vi parla.
     L’unica cosa che può conciliare con questo tipo di situazione è la semplice constatazione che – per ragioni stilistiche, in primo luogo – uno scrittore non può parlare per un altro scrittore, e specialmente un poeta per un altro poeta; che se Osip Mandel’stam, o Marina Cvetaeva , o di Robert Frost, o Anna Achmatova, o Wystan Auden fossero qui, non avrebbe potuto fare altro che parlare proprio per se stessi, e anche loro, si sarebbero sentiti un po’ a disagio.
     Queste ombre mi disturbano costantemente; e mi disturbano anche oggi. In ogni caso non spronano all’eloquenza. Nei miei momenti migliori, io mi sento come se fossi una proiezione di tutti loro, sebbene invariabilmente inferiore a ciascuno di loro individualmente. Per questo non è possibile fare meglio di loro sulla pagine; né è possibile far meglio di loro nella vita. E sono proprio le loro vite, non importa quanto tragiche o amare esse siano state, che spesso mi inducono – più spesso forse di quanto dovrebbe essere il caso – a rimpiangere il passare del tempo. Se esiste una vita futura – e io non posso negar loro la possibilità di una vita eterna più di quanto io possa dimenticare la loro esistenza in questa – se il mondo futuro esiste, spero che essi perdonino me e la qualità di ciò che sto per dire: dopo tutto, non è che la dignità nella nostra professione sia valutata nella condotta che si tiene parlando dal podio.
     Ho ricordato solo cinque di loro, quelli i cui molti fatti hanno contato tanto per me, se non altro perché se non fosse per loro, io, come uomo e scrittore, varrei molto meno; in ogni caso non sarei qui ora. Ce ne furono ancora molte di quelle ombre – o meglio, sorgenti di luce: lampioni? stelle? – molte più di quei cinque. E ciascuno di loro capace di togliermi la parola. Il loro numero è fondamentale nella vita di un letterato consapevole; nel mio caso, questo raddoppia, grazie alle due culture alle quali il mio destino ha voluto che io appartenessi. Le cose non sono facilitate se si pensa agli scrittori e amici contemporanei di entrambe le culture, poeti e narratori i cui doni io considero superiori ai miei, e che, se si fossero trovati loro a parlare da questa tribuna, sarebbero arrivati al punto in breve tempo, perché sicuramente hanno più cose da dire del mondo di quante non ne abbia io.
     Mi permetto perciò di fare qui una serie di osservazioni – disorganizzate, forse impappinandomi, e forse anche imbarazzanti nella loro casualità. Comunque, la quantità di tempo dedicatami per raccogliere i miei pensieri, così come anche la mia occupazione, mi proteggeranno, spero, almeno parzialmente, contro le accuse di essere caotico. Un uomo della mia occupazione sostiene raramente un modo sistematico di pensare; nel peggiore dei casi dice di avere un sistema – ma anche che nel suo caso, è preso in prestito da un ambiente, da un ordine sociale, o dalla ricerca della filosofia in tenera età. Niente convince un artista più dell’arbitrarietà dei mezzi a cui si ricorre per raggiungere un obiettivo – per quanto permanente sia – che il processo creativo stesso. I versi crescono, nelle parole dell’Achmatova, dalla spazzatura; le radici della prosa non sono più onorevoli.

     II
     Se l’arte insegna qualche cosa (all’artista, in primo luogo) è la privatezza della condizione umana. Essendo la forma più antica come anche la più letterale delle imprese private, favorisce in un uomo, consapevolmente o inconsapevolmente, il senso della sua unicità, dell’individualità, della separatezza – trasformandolo così da animale sociale in un “io” autonomo. Un sacco di cose possono essere condivise: un letto, un pezzo di pane, convinzioni, un’amante, ma non una poesia di, diciamo, Rainer Maria Rilke. Un’opera d’arte, specialmente di letteratura, e in particolare una poesia, si rivolge a un uomo tête-a-tête, entrando con lui in relazione diretta, senza intermediazioni.
     È per questa ragione che l’arte in generale, specialmente la letteratura, e la poesia in particolare, non è esattamente l’attività favorita da campioni del bene comune, da guide della masse, da araldi della necessità storica. Perché là, dove l’arte ha fatto dei passi, dove una poesia è stata letta, essi scoprono, al posto del previsto consenso e unanimità, indifferenza e polifonia; al posto della determinazione ad agire, disattenzione e pignoleria. In altre parole, nei piccoli zeri con cui i campioni del bene comune e i governanti delle masse tendono a lavorare, l’arte introduce un “punto, un punto e virgola, un meno”, trasformando ogni zero in un volto minuscolo di essere umano, anche se non sempre bello.
     Il grande Baratynsky, parlando della sua Musa, la descriveva come dotata di un “viso non comune”. È in questa acquisizione “viso non comune” che il significato dell’esistenza umana sembra risiedere, dal momento che per questo non essere comuni noi siamo, per così dire, preparati geneticamente. Indipendentemente dal fatto che uno sia uno scrittore o un lettore, il proprio compito consiste prima di tutto nella padronanza di una vita che è la propria, non imposta né prescritta dal di fuori, per quanto nobile possa essere il suo aspetto. Perché a ciascuno di noi è data una sola vita, e sappiamo perfettamente come tutto finisce. Sarebbe un peccato sprecare questa occasione per l’aspetto di qualcun altro, l’esperienza di qualcun altro, per una tautologia - tanto più deplorevole in quanto gli araldi della necessità storica, alla cui sollecitazione un uomo può essere indotto ad accettare questa tautologia, non andranno nella tomba con lui né gli daranno neppure un ringraziamento.
     La lingua e, presumibilmente, la letteratura sono cose che sono più antiche e inevitabili, più durevoli di qualsiasi forma di organizzazione sociale. La repulsione, l’ironia o l’indifferenza spesso espresse dalla letteratura verso lo stato è essenzialmente una reazione del permanente – meglio ancora, l’infinito – contro il temporaneo, contro il finito. A dire il vero, fino a quando lo stato si permette di interferire con gli affari della letteratura, la letteratura ha il diritto di intervenire negli affari dello stato. Un sistema politico, una forma di organizzazione sociale, come qualsiasi sistema in generale, è per definizione una forma del passato che aspira a imporre se stessa sul presente (e spesso anche sul futuro); e un uomo la cui professione è il linguaggio è l’ultimo che può permettersi di dimenticare questo. Il vero pericolo per uno scrittore è non tanto la possibilità (e spesso la certezza) della persecuzione da parte dello stato, quanto la possibilità di trovarsi ipnotizzato dalle caratteristiche dello stato, che, anche se è in procinto di sottoporsi a cambiamenti mostruosi o al meglio, è sempre temporaneo.
     La filosofia dello stato, la sua etica – per non parlare della sua estetica – sono sempre manifestazioni di un “ieri”. La lingua e la letteratura sono sempre manifestazioni dell’“oggi” e spesso – soprattutto laddove esista un sistema politico ortodosso – esse possono rappresentare anche un “domani”. Uno dei meriti della letteratura è precisamente quello di aiutare una persona a rendere il tempo della propria esistenza in modo più preciso, per distinguersi dalla folla dei suoi predecessori così come i suoi numeri come, per evitare la tautologia – cioè, il destino altrimenti conosciuto col termine onorifico, di “vittima della storia”. Ciò che rende l’arte in generale, e la letteratura in particolare, notevole, ciò che li distingue dalla vita, è proprio che aborriscono la ripetizione. Nella vita di tutti i giorni si può dire la stessa battuta tre volte, e tre volte ottenendo una risata, diventare l’anima della festa. In arte, però, questo tipo di comportamento si chiama “cliché”.
     L’arte è un’arma senza rinculo, e il suo sviluppo è determinato non dal l’individualità dell’artista, ma dalla dinamica e la logica del materiale stesso, dal precedente destino dei mezzi che ogni volta chiedono (o suggeriscono) una qualitativamente nuova soluzione estetica. Possedendo una propria genealogia, proprie dinamiche, logica, e futuro, l’arte non è sinonimo di storia, ma nella migliore delle ipotesi parallela a essa; e il modo con il quale esiste è da sempre la creazione di una nuova realtà estetica. Questo è il motivo per cui si trova spesso “davanti al progresso”, davanti alla storia, il cui principale strumento è - non dovremmo, una volta di più, migliorare Marx - proprio il cliché.
     Al giorno d’oggi, esiste una visione piuttosto diffusa, che postula che nel suo lavoro uno scrittore, in particolare un poeta, dovrebbe utilizzare il linguaggio della strada, la lingua della folla. Perché con tutta la sua apparenza di democrazia, e i tangibili vantaggi per uno scrittore, questa affermazione è assurda e rappresenta un tentativo di subordinare l’arte, in questo caso, la letteratura, alla storia. Solo se pensiamo che sia giunto il momento per l’Homo sapiens di una battuta d’arresto nel suo sviluppo che la letteratura deve parlare la lingua del popolo. Altrimenti è il popolo che dovrebbe parlare il linguaggio della letteratura.
     Nel complesso, ogni nuova realtà estetica rende la realtà etica dell’uomo più precisa. Perché l’estetica è la madre dell’etica; le categorie di “buono” e “cattivo” sono, in primo luogo, estetiche, e almeno etimologicamente precedono le categorie di “bene” e “male”. Se in etica non “tutto è permesso”, è proprio perché non “tutto è permesso” in estetica, dato che il numero di colori dello spettro è limitato. Il tenero bambino che piange e respinge l’estraneo o che, al contrario, si rivolge a lui, lo fa istintivamente, facendo una scelta estetica, non una morale.
     La scelta estetica è un problema molto personale, e l’esperienza estetica è sempre un fatto privato. Ogni nuova realtà estetica rende la propria esperienza una condizione ancora più privata; e questo tipo di privacy, assumendo a volte le sembianze di gusto letterario (o qualche altro genere), può di per sé rivelarsi, se non come garanzia, come una forma di difesa contro riduzione in schiavitù. Perché un uomo di gusto, in particolare di gusto letterario, è meno soggetto ai ritornelli e agli incantesimi ritmici peculiari di qualsiasi versione di demagogia politica. Il punto non è tanto che la virtù non costituisca una garanzia per la produzione di un capolavoro, in quanto il male, soprattutto il male politico, è sempre un cattivo stilista. Più sostanziale è l’esperienza estetica di un individuo, più sonoro il suo gusto, più nitida la sua attenzione morale, più libero – anche se non necessariamente felice – egli sarà.
     È proprio in questo senso applicativo, piuttosto che platonico, che dobbiamo capire la frase di Dostoevskij che la bellezza salverà il mondo, o la convinzioni di Matthew Arnold che saremo salvati dalla poesia. Probabilmente è troppo tardi per il mondo, ma per il singolo uomo rimane sempre una possibilità. L’istinto estetico si sviluppa nell’uomo piuttosto rapidamente, perché, anche senza rendersi conto pienamente ciò che egli è e ciò che richiede in realtà, una persona sa istintivamente ciò che non piace e cosa non gli si addice. In un rispetto antropologico, lo ripeto, l’essere umano è una creatura estetica prima di essere un problema etico. Pertanto, non è che l’arte, in particolare la letteratura, sia un sottoprodotto dello sviluppo della nostra specie, ma proprio il contrario. Se ciò che ci distingue dagli altri membri del regno animale è la parola, allora la letteratura – e la poesia, in particolare, è la sua forma più alta – è, per dirla senza mezzi termini, lo scopo della nostra specie.
     Sono ben lontano dal suggerire l’idea di una formazione obbligatoria per comporre in versi, tuttavia, la suddivisione della società in intellighenzia e “tutto il resto” mi sembra inaccettabile. In termini morali, la situazione è paragonabile alla suddivisione della società in ricchi e poveri; ma se è ancora possibile trovare alcuni motivi puramente fisici o di carattere materiale per l’esistenza delle disuguaglianze sociali, per la diseguaglianza intellettuale questi motivi sono inconcepibili. L’uguaglianza in questo senso, a differenza di altre situazioni, è stata garantita dalla natura. Sto parlando non di istruzione, ma di educazione nel linguaggio, la minima imprecisione in cui si può innescare l’intrusione di una falsa scelta nella propria vita. L’esistenza della letteratura prefigura l’esistenza sul piano della letteratura di considerazione – e non solo in senso morale, ma anche lessicale. Se un pezzo di musica permette ancora a una persona la possibilità di scegliere tra il ruolo passivo di chi ascolta e quello attivo di chi la esegue, un’opera letteraria – dell’arte, che è, per dirla con Montale, disperatamente semantica – lo costringe solo al ruolo di esecutore.
     In questo ruolo, mi sembra, una persona dovrebbe apparire più spesso che in qualsiasi altro. Inoltre, mi sembra che, a seguito dell’esplosione demografica e dell’attesa di una sempre crescente atomizzazione della società (cioè, il sempre maggiore isolamento dell’individuo), questo ruolo diventi sempre più inevitabile per una persona. Non credo di sapere di più sulla vita di chiunque altro della mia età, ma mi sembra che, in qualità di interlocutore un libro è più affidabile di un amico o di una persona cara. Un romanzo o una poesia non è un monologo, ma la conversazione di uno scrittore con un lettore, una conversazione, ripeto, che è molto privata, e che esclude tutti gli altri – se si vuole, mutualmente misantropica. E nel momento di questa conversazione lo scrittore è uguale al lettore, e viceversa, indipendentemente dal fatto che lo scrittore sia grande o no. Questa uguaglianza è uguaglianza di coscienza. Rimane in una persona per il resto della sua vita, sotto forma di memoria, nebbiosa o distinta, e, prima o poi, in modo appropriato o no, condiziona il comportamento di una persona. È proprio questo che ho in mente nel parlare del ruolo di esecutore, tanto più naturale per uno perché un romanzo o una poesia è il prodotto della solitudine reciproca - di scrittore o di lettore.
     Nella storia della nostra specie, nella storia di Homo sapiens, il libro è lo sviluppo antropologico, simile in sostanza all’invenzione della ruota. Essendo emerso per darci un’idea non tanto delle nostre origini quanto di ciò che il sapiens è capace, un libro costituisce un mezzo di trasporto attraverso lo spazio dell’esperienza, alla velocità necessaria per sfogliare una pagina. Questo movimento, come ogni movimento, diventa una fuga dal denominatore comune, da un tentativo di elevare la linea di questo denominatore, precedentemente mai situato al di sopra dell’inguine, al nostro cuore, alla nostra coscienza, alla nostra immaginazione. Questo volo è il volo in direzione del “visage insolito”, in direzione del numeratore, nella direzione dell’autonomia, in direzione della privacy. Indipendentemente dalla immagine nella quale siamo stati creati, ci sono già cinque miliardi di noi, e per un essere umano non c’è futuro se non quello delineato dall’arte. In caso contrario, quello che ci aspetta è il passato - quello politico, prima di tutto, con tutti i suoi divertimenti di massa della polizia.
     In ogni caso, la condizione di una società in cui l’arte in generale, e la letteratura in particolare, siano di proprietà o prerogativa di una minoranza mi appare malsano e pericoloso. Non faccio appello per la sostituzione dello Stato con una biblioteca, anche se questo pensiero mi ha visitato di frequente, ma non c’è dubbio nella mia mente che, se avessimo scelto i nostri dirigenti sulla base della loro esperienza di lettura e non per i loro programmi politici, ci sarebbe molto meno dolore sulla terra. Mi sembra che a una persona che avesse il potere di decidere sul nostro destino si dovrebbe chiedere, prima di tutto, non di come si immagini il corso della sua politica estera, ma quale sia il suo atteggiamento verso Stendhal, Dickens, Dostoevskij. Se non altro poiché la letteratura nel suo complesso è infatti la diversità umana e la perversità, si scopre che è un antidoto affidabile per qualsiasi tentativo - sia familiare o ancora da inventare - verso una soluzione di massa totale ai problemi dell’esistenza umana. Come una forma di assicurazione morale, almeno, la letteratura è molto più affidabile di un sistema religioso o una dottrina filosofica.
     Dal momento che non ci sono leggi che ci proteggono da noi stessi, nessun codice penale è in grado di impedire un vero crimine contro la letteratura; anche se siamo in grado di condannare la soppressione materiale della letteratura - la persecuzione degli scrittori, gli atti di censura, il rogo dei libri - siamo impotenti quando si tratta della peggiore delle violazioni: quella di non leggere i libri. Per questo reato, una persona paga con la sua vita; se l’autore del reato è una nazione, essa paga con la sua storia. Vivendo nel paese in cui vivo, sarei il primo a credere che ci sia una dipendenza tra il benessere materiale di una persona e la sua ignoranza letteraria. Ciò che mi impedisce di farlo è la storia di quel paese in cui sono nato e cresciuto. Perché, riducendo il tutto al minimo di una causa-effetto, ad una formula grezza, la tragedia russa è proprio la tragedia di una società in cui la letteratura si è rivelata essere la prerogativa della minoranza: della celebrata intellighenzia russa.
     Non ho alcun desiderio di estendere l’argomento, nessun desiderio di oscurare questa sera con pensieri di decine di milioni di vite umane distrutte da altri milioni, dal momento che ciò che è avvenuto in Russia nella prima metà del XX secolo si è verificato prima dell’introduzione delle armi automatiche – in nome del trionfo di una dottrina politica la cui inconsistenza è già manifesta nel fatto che richiede il sacrificio umano per la sua realizzazione. Mi limiterò a dire che a mio parere – non empiricamente, purtroppo, ma solo in teoria – per chi ha letto molto di Dickens, sparare al suo simile in nome di un’idea è più problematico che per chi non ha letto Dickens. E sto parlando proprio di chi ha letto Dickens, Sterne, Stendhal, Dostoevskij, Flaubert, Balzac, Melville, Proust, Musil, e così via; cioè di letteratura, non di alfabetizzazione e istruzione. Un letterato, persona colta, per essere sicuri, è pienamente in grado, dopo aver letto questo o quel trattato politico o del tratto, di uccidere un suo simile, e anche, dopo aver fatto di esserne pienamente convinto. Lenin era letterato, Stalin era letterato, e così era Hitler, e Mao Zedong ha perfino scritto versi. Ciò che tutti questi uomini avevano in comune, però, era che la lista delle persone che hanno colpito era maggiore alla lista dei libri che hanno letto.     
     Tuttavia, prima di passare alla poesia, vorrei aggiungere che sarebbe opportuno considerare l’esperienza russa come un avvertimento, se non altro perché la struttura sociale dell’Occidente fino ad oggi è, nel complesso, analoga a quello che esisteva in Russia prima del 1917. (Questo, tra l’altro, è ciò che spiega la popolarità in Occidente del romanzo ottocentesco russo psicologico, e la relativa mancanza di successo della prosa russa contemporanea. Le relazioni sociali che sono emerse in Russia nel XX secolo presumibilmente, non appaiono meno esotiche al lettore di quanto non facciano i nomi dei personaggi, che gli impediscono di identificarsi con loro.) Ad esempio, il numero di partiti politici, alla vigilia del colpo di stato ottobre del 1917, non era inferiore a quanto si trova oggi negli Stati Uniti o in Gran Bretagna. In altre parole, un osservatore spassionato potrebbe osservare che in un certo senso il XIX secolo sia ancora in corso in Occidente, mentre in Russia sia terminato; e se io dico che è finito in tragedia, questo è, in primo luogo, a causa delle dimensioni del costo umano di tale cambiamento sociale – o cronologico. Perché la vera tragedia, non è quando perisce l’eroe, ma il coro.

     III
     Sebbene per un uomo la cui lingua madre è il russo parlare della cattiva politica è naturale come la digestione, vorrei qui cambiare argomento. Quello che c’è di sbagliato in discorsi che trattano di ovvietà è che essi corrompono le coscienze con la loro facilità, con la rapidità con cui offrono un conforto morale, la sensazione di essere nel giusto. Questa è la tentazione, simile nella sua natura alla tentazione di un riformatore sociale che genera questo male. La realizzazione, o meglio la comprensione di questa tentazione e il rifiuto di essa, sono forse le cose responsabili in certa misura dei destini di molti dei miei contemporanei, responsabili della letteratura che è scaturita dalle loro penne. E quella letteratura, non era né un volo dalla storia, né una attenuazione della memoria, per quanto possa sembrare dall’esterno. “Come si può scrivere musica dopo Auschwitz?” chiese Adorno; e uno che avesse familiarità con la storia russa potrebbe ripetere la stessa domanda, semplicemente cambiando il nome del campo – e ripeterla forse ancora a maggior ragione, dal momento che il numero di persone che morirono nei campi di Stalin supera di gran lunga il numero delle vittime dei campi di prigionia tedeschi . “E come potete mangiare?” il poeta americano Mark Strand, una volta rispose. In ogni caso, la generazione a cui appartengo si è dimostrata in grado di scrivere quella musica.
     Quella generazione - la generazione nata proprio nel momento in cui i crematori di Auschwitz stavano lavorando a pieno ritmo, quando Stalin era al culmine del suo essere simile a Dio, del suo potere assoluto, che sembrava sponsorizzato da Madre Natura – quella generazione venne al mondo, a quanto pare, al fine di continuare quello che, in teoria, avrebbe dovuto essere interrotto da quei forni crematori e nelle tombe anonime comuni dell’arcipelago di Stalin. Il fatto che non si sia interrotto del tutto, almeno non in Russia, può essere accreditato in non piccola misura alla mia generazione, e io non sono meno orgoglioso di appartenere ad essa di quanto non lo sia a stare qui oggi. E il fatto che io sono qui è un riconoscimento dei servizi che la mia generazione ha reso alla cultura; ricordando una frase di Mandel’stam, vorrei aggiungere, alla cultura mondiale. Guardando indietro, posso ancora dire che abbiamo cominciato in un paese vuoto – in realtà devastato in modo terrificante –, e che, intuitivamente piuttosto che consapevolmente, aspiravamo a ricreare una continuità della cultura, a ricostruire le sue forme e tropi, per riempire le sue forme, sopravvissute ma spesso completamente compromesse, con il nostro nuovo, o che appariva a noi nuovo, contenuto.
     Esisteva, presumibilmente, un altro percorso: il percorso di ulteriore deformazione, la poetica delle rovine e detriti, del minimalismo, di respiro soffocato. Se lo abbiamo respinto, non era certamente perché pensavamo che fosse un percorso di auto-drammatizzazione, o perché eravamo fortemente animati dall’idea di preservare la nobiltà ereditaria delle forme di cultura che conoscevamo, le forme che giudicavamo equivalenti, nella nostra coscienza, a forme di dignità umana. L’abbiamo respinto perché in realtà la scelta non fu nostra, ma in realtà proprio della cultura – e questa scelta, ancora una volta, fu estetica piuttosto che morale.
     A dire il vero, è naturale per una persona di percepire se stesso non come strumento di cultura, ma, al contrario, come il suo creatore e custode. Ma se oggi affermo il contrario, non è perché verso la fine del XX secolo vi è un certo fascino nel parafrasare Plotino, Lord Shaftesbury, Schelling, o Novalis, ma perché, a differenza di chiunque altro, un poeta sa sempre che ciò che nel volgare si chiama la voce della Musa sono, in realtà, i dettami del linguaggio; cioè non che la lingua sembri essere il suo strumento, ma un mezzo del linguaggio verso la continuazione della sua esistenza. La lingua, tuttavia, anche se la si immagina come una creatura animata (che sarebbe giusto), non è in grado di scelta etica.
     Una persona si propone di scrivere una poesia per una serie di motivi: per conquistare il cuore della sua amata; per esprimere il suo atteggiamento verso la realtà che lo circonda, sia esso un paesaggio o uno stato; per catturare il suo stato d’animo in un dato istante; per lasciare – come pensa in quel momento – una traccia sulla terra. Ricorre a questa forma – la poesia – molto probabilmente per motivi inconsciamente mimetici: il grumo nero verticale di parole sul foglio di carta bianca gli ricorda presumibilmente la propria situazione nel mondo, l’equilibrio tra lo spazio e il suo corpo. Ma a prescindere dalle ragioni per le quali egli prende la penna, e indipendentemente dall’effetto prodotto sul suo pubblico da ciò che viene fuori quella penna – per quanto grande o piccolo possa essere – la conseguenza immediata di questa impresa è la sensazione di entrare in contatto diretto con la lingua o, più precisamente, la sensazione di cadere immediatamente in sua dipendenza, di tutto ciò che è già stato pronunciato, scritto e realizzato in essa.
     Questa dipendenza è assoluta, dispotica; ma si svincola pure. Infatti, mentre è sempre più vecchia dello scrittore, la lingua possiede ancora un’energia centrifuga colossale impartitale dal suo potenziale temporale – che è, per ogni i tempo mentire il futuro. E questo potenziale è determinato non tanto dalla quantità di corpi che in quella nazione parlano quella lingua (sebbene sia anche determinato da quello), quanto dalla qualità della poesia che in essa si scrive. Basti ricordare gli autori dell’antichità greca e romana; basti ricordare Dante. E ciò che viene creato oggi in russo o in inglese, per esempio, assicura l’esistenza di queste lingue anche nel corso del prossimo millennio. Il poeta, vorrei ripetere, è un mezzo per l’esistenza della lingua – o, come ha detto il mio amato Auden, che è colui di cui essa vive. Io che scrivo queste righe cesserò di essere; e così voi che le leggete. Ma la lingua in cui esse sono state scritte e nella quale vengono lette rimarrà non solo perché la lingua è più duratura di quanto lo sia l’uomo, ma perché è più capace di mutarsi.
     Uno che scrive una poesia, però, non la scrive perché corteggia la fama nei confronti della posterità, anche se spesso spera che la sua poesia lo sopravviva, anche per poco tempo. Uno che scrive una poesia scrive perché la lingua lo richiede, o più semplicemente, perché gli detta la riga successiva. Iniziando una poesia, il poeta di regola non conosce il modo in cui si realizzerà, e a volte si sorprende molto per come avverrà, dal momento che spesso il risultato sarà migliore di quanto non si sarebbe aspettato, spesso il suo pensiero porta più lontano di quanto abbia fatto i conti. E questo è il momento in cui il futuro della lingua invade il suo presente.
     Ci sono, come è noto, tre modalità di cognizione: quella analitica, quella intuitiva, e il modo noto ai profeti biblici, la rivelazione. Ciò che distingue la poesia da altre forme di letteratura è che li utilizza tutti e tre in una volta (gravitando principalmente verso il secondo e il terzo). Perché tutti e tre le forme di cognizione sono presenti nella lingua; e ci sono momenti in cui, per mezzo di una sola parola, una sola rima, lo scrittore di una poesia riesce a trovare se stesso dove nessun altro è mai stato prima di lui, oltre, forse, quanto egli stesso avrebbe desiderato. Colui che scrive una poesia scrive soprattutto perché scrivere versi è un acceleratore straordinario di coscienza, di pensiero, di comprendere l’universo. Dopo aver sperimentato questa accelerazione una volta, non si è più in grado di abbandonare la possibilità di ripetere questa esperienza; si cade nella dipendenza da questo processo, nello stesso modo in cui altri cadono in dipendenza della droga o dell’alcool. Colui che si trova in questo tipo di dipendenza dal linguaggio è, credo, quello che chiamano un poeta.
[…]
                                                                                                         8 novembre 1987