ECHI - RILETTURE. Da "LA ROSA" di Franco Scataglini
Nato ad Ancona il 25 luglio del 1930, Franco Scataglini frequenta la scuola di avviamento professionale e viene assunto alle Poste Italiane, dove lavora fino al 1976. Durante la seconda guerra mondiale, mentre è sfollato a Chiaravalle, nella biblioteca del paese inizia il suo amore per la poesia. Finita la guerra, le prime passioni politiche lo portano, assieme ad altri giovani intellettuali, tra cui Italo Calvino, in Unione Sovietica. L’esperienza, però, si rivela una delusione. All’età di vent’anni, nel 1950, pubblica Echi, una raccolta di versi in italiano. Studia a lungo in modo autonomo e quasi clandestino: quando legge Pier Paolo Pasolini riconosce nell’amore verso la “lingua volgare” una nuova ispirazione artistica. Così, nel 1973, anche grazie ai consigli del critico ed editore anconitano Carlo Antognini, arriva a pubblicare la sua prima raccolta di poesie in dialetto anconitano, E per un frutto piace tutto un orto a cui fa seguito, quattro anni dopo, So' rimaso la spina. In questo periodo, Scataglini inizia a cimentarsi anche come pittore. Nel 1982 esce Carta laniena, grazie al quale vince il premio Carducci. Più tardi conclude la traduzione, seppur parziale, del romanzo medievale in versi Le Roman de la Rose, che lo porta ad affermarsi fra i poeti italiani. L’ultima sua opera, El sol, pubblicata postuma, è un poema autobiografico.
Franco Scataglini muore improvvisamente la notte del 28 agosto 1994 nella sua casa di Numana. Riposa nel piccolo cimitero del paese, vista mare.
La poesia di Scataglini è stata variamente definita: dialettale, neodialettale, neovolgare. Il suo anconitano è certo rivisto, arricchito con arcaismi, ricreato come lingua d’autore.
Il 25 luglio del 2010 gli è stato dedicato il parco del Cardeto nella sua città natale.
* * *
(versi dal 741 all'822)
Nel memorando brolo
tuto era sono e svolo.
Lai d'amore, cortesi
sonetti e sirventesi
d'ucelleti nel folto.
Me smemorai a l'ascolto
che drento m'adolcia
de tanta melodia.
Piacere, incondiviso
da me, 'ndov'era asiso?
(Nel scrigno verdegiante
de quel poetà beante).
Me volsi, dietro al spero,
p'un picolo sentiero
c'al logo s'inambienta
'ntra el finochio e la menta.
Ed eco el sire caro
dietro a un quieto riparo
in legiadro certame
coi belli del reame.
Mai vidi più avenente
comunanza de gente.
Come i angioli nata
l'avresti detta, alata.
Vigeva la carola
(de cui farò parola)
sul momento, per danza,
in divina acordanza
con cantante provetta,
dama, Letizia detta.
Costia con voce pura
a l'estro, per misura,
legava l'artifizio
senza lascianne indizio.
Niente de Villania
avria preso badia
ne l'oservanza stretta,
in lia, de l'etichetta.
serbava nel ballà
la naturalità
da cui grazia procede.
Batteva a tempo el piede,
flesuosetta e sicura,
secondo la figura.
Su la lieve erba fresca,
malizia fanciullesca,
ora unita ora sdoppia,
de le donzelle in coppia!
Menestrelli e giullari
dai rimati breviari
traeva a soni e canti
le virelé tocanti
che dà esultanza e pena
come se fa in Lorena.
Bravi intratenitori,
i tamburellatori,
tratanto, l'istrumento,
per aria, in un momento,
butta e riprende a volo,
destri, su un dito solo.
Coinvolto nel ballà
era, con nobiltà,
Piacere da fanciulle
trillanti come biulle
a una recente luna.
Al de là de la cruna
passate quelle e queste.
La semplicetta veste
una mite eleganza
recava a la sembianza.
Su armoniose cadenze
fioriva le movenze
de le fanciulle bine.
Procurava assai fine
a me astante diletto
l'aire del balletto.
L'una l'altra appressava,
danzante, che danzava,
finché drento a l'allacio
del figurale abracio,
le tropo acoste boche
parea essese toche.
[...]
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