"PAROLE A UN PUBBLICO IMMAGINARIO" e testi da "TUTTE LE POESIE" di Alfonso Gatto

 

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Alfonso Gatto nacque a Salerno il 17 luglio 1909. La sua infanzia e la sua adolescenza furono piuttosto travagliate. A Salerno, nella sua città natale, compì i primi studi al liceo classico.
Nel 1926 si iscrisse allUniversità di Napoli che dovette tuttavia abbandonare qualche anno dopo a causa di difficoltà economiche. Al pari di molti poeti del suo tempo come Montale e Quasimodo, non si laureò mai.
Si innamorò e poi sposò la figlia del suo professore di matematica, Jole, con la quale, alla sola età di 21 anni, fuggì a Milano.
Da quel momento la sua vita fu piuttosto irrequieta e avventurosa, trascorsa come fu in continui spostamenti e nell’esercizio di molteplici lavori. Dapprima commesso di libreria, in seguito istitutore di collegio, poi correttore di bozze, giornalista (anche sportivo. Di lui si ricordano ancora le mirabili cronache dal Tour de France e dal Giro d’Italia) e insegnante. Nel 1936, a causa del suo dichiarato antifascismo, venne arrestato e trascorse sei mesi nel carcere di San Vittore a Milano.
Durante quegli anni fu collaboratore delle più innovative riviste di cultura letteraria: dall’“Italia letteraria” alla “Rivista Letteratura”, a “Circoli”, a “Primato”, alla “Ruota”. Nel 1938 fondò, con la collaborazione di Vasco Pratolini e su commissione dell’editore Vallecchi, la rivista “Campo di Marte” che fu data alle stampe per un solo anno.
Nel 1941 ricevette la nomina a ordinario di Letteratura italiana per “chiara fama” presso il Liceo Artistico di Bologna e fu inviato speciale de “L’Unità” assumendo una posizione di primo piano nella letteratura di ispirazione comunista. In seguito si dimise dal partito divenendo un comunista “dissidente”.
La sua produzione letteraria si concretizzò in numerose opere di poesia e narrativa. Fu anche, occasionalmente, attore cinematografico.
Morì a Capalbio (GR), a seguito di un incidente stradale, l’8 marzo del 1976
È sepolto nel cimitero di Salerno. Sulla sua tomba, che ha un macigno per lastrone, è inciso il commiato funebre dell’amico Eugenio Montale: “Ad Alfonso Gatto / per cui vita e poesie / furono un'unica testimonianza / d'amore”.

 

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PAROLE A UN PUBBLICO IMMAGINARIO

 

In “Pesci rossi”, a. XIV, n. 1, gennaio 1947, p. 8; in Via del Vento Edizioni, Pistoia, 1996 e in “nostro lunedì”, n. 2, p. 6 e 7

 

Ho scritto la mia prima poesia a vent’anni in una stanza diroccata. Di là dalla finestra c’era il mare, pioveva dolcemente. Avevo visto per vent’anni le montagne chiudere il golfo e contro il cielo una casetta odorare del suo intonaco rosa che la pioggia le risvegliava. Tante sere io mi dicevo: «Dopo di me vivrà il mondo, chissà se altri guarderà questi colli e il mare col mio stesso sguardo e senza saperlo mi ricorderà».
Forse era amore questo desiderio di sopravvivenza. Forse era gloria. Forse era un viaggio di là dai monti  - addio a mia madre, addio a me stesso rimasto bambino al balcone per salutarmi. Forse era morte - andare con l’ultima luce, rimpiangermi come io solo sapevo rimpiangermi. E donne, treni, quei monti così lunghi che tutte le case n’erano calde, significavano la vita che non dovevo toccare se m’era tutta dentro, avuta col sangue, con gli occhi, con la bocca che mi sorrideva.
Questa fu la poesia che mi si rivelò in quella stanza diroccata ov’io ero seduto: le parole che scrissi allora, poche, timide, ma come sospese al silenzio che m’era intorno, mi sembrava che fossero proprio quelle con cui la sera voleva essere amata dal suo grande bambino.
È un’immagine che non ho perduto lungo gli anni: quel modo dolce e incontenibile con cui il mio cuore allora si sentì soffocato e aperto, m’è rimasto dentro per ogni mia parola, per ogni atto in cui mi sento vivere; e nulla c’è che mi distolga dal credere ancora oggi che la terra e gli uomini abbiano bisogno d’essere amati dal mio sguardo, suscitati nella terra, forti, vittoriosi nella splendida materia delle parole. Le polemiche, le definizioni, mi hanno lasciato intatto il mio brusco modo di sentirmi vivo e il riconoscere la poesia con franchezza, come un fatto, come una cosa.
Io odio gli uomini che la credono un problema, che vogliono ridurla alle proprie ragioni, che non sentono il terrore delicato in cui essa è come sospesa ogni volta a trovare la sua voce al momento in cui tutte le parole tacciono.
A non saper dir nulla di me, altro che il modo com’ero aperto all’amore avido che mi cercava, quale struggente nostalgia di bene sentivo di portare, e quel viaggio da compiere al di là di me stesso per ritrovarmi. «Io ero malinconichissimo e mi posi alla finestra»: è questa la veduta per l’infinito che ci ha lasciato Leopardi.
Noi amiamo la vita quanto più sentiamo di dover resistere alle sue impressioni, e durare, consumandola nel tempo e nella musica, affinché la nostra purezza sia come la spoglia del corpo ove abbiamo bruciato tutta la gioia e tutta la pena per non inaridire e per rispondere anche coi palpiti alla voce che sino all’ultimo ci 
desterà.
Lasciamo questo nostro desiderio aperto nella storia degli uomini, è la ragione della vita stessa, una tenace materia in cui vogliamo che tutti i pensieri siano cose.
La poesia è una realtà che accusa il lettore e lo pone di fronte alla sua distrazione. Egli forse vuol vivere comunque, ma davanti alla poesia si accorgerà che le parole, a una a una e nel loro periodo, a poco a poco lo prendono, gli rivelano un mondo che presentiva, in cui dovrà riconoscersi e non perdere nulla della sua grandezza e della sua miseria.
S’accorgerà che perdendo la faccia si darà un volto, si identificherà e fermerà un momento, perché gli parlino, poi sempre più a lungo, quegli stessi desideri che prima abbandonava e temeva. La poesia vi provoca, vi mette di fronte al bisogno della lotta. Leggendovi le mie liriche io voglio essere un buon provocatore. State attenti. Appunto perché la poesia è vita, essa può essere subito ricondotta alle dimensioni di un problema, a far soltanto da mediatrice e da moderatrice tra i sentimenti estremi che essa suscita e gli ideali apparenti che essa conforta.
L’uso della poesia, di tutta la poesia, per coloro che vogliono fermarla al suo valore di “arte” e inibirle ogni umana disperazione, poggia ancora sul conforto che se ne vuole ottenere a tutti i costi, nonostante che i poeti vivano appunto per smentirlo. Anche io sono qui per smentirlo, e per contagiarvi della mia disperazione, per radicarvi alle mie speranze, per dirvi che i vostri affetti e le vostre passioni sono un nulla, una bugia che voi sapete di dire se non sono la voce stessa dei sentimenti che dovete raggiungere e identificare in voi e contro di voi, nella pienezza della vostra vita morale e nella realtà della vostra natura.
Se voi vi domandate perché un poeta scrive, e in che modo si è deciso a scrivere, se voi ricordate quel ragazzo seduto nella sua stanza diroccata, comprenderete perché la poesia appartenga agli uomini che non si difendono, che passano nella vita, lungo tutta la vita, senza appropriarsene, amandola anche per gli altri che credono di averla spesa o di poterla spendere senza mai riuscire nemmeno a destarla.
Il poeta è un uomo mortale che vive con tutta la sua morte e con tutta la sua vita, nel tempo, e in sé si consuma e si sveglia, negli altri si popola e si chiama, e nulla possiede che non abbia già amato e perduto. «Volea dire, troverai altri in vece mia, ma no: un cuore come il mio non lo troverai», ha scritto Leopardi. Lasciate che i poeti siano sicuri di questa disperata bontà per il proprio cuore.

 

 

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Da TUTTE LE POESIE (Milano, Mondadori 2005)

 

 

Isola
 

Or nella solitaria
Cadenza d’un approdo,
svanita la memoria
al suo tepore effusa,
esala bianca l’isola
la brezza del mio cielo.

 

 

Alba a Sorrento
 

Al freddo stretto i limoni movevano la luna d’alba
prossima ad esalare scialba nel cielo dei portoni.
Sulla finestra a grate, tra i rami d’arancio
portava il vento uno slancio di polle rosate:
i gerani smorti dal gelo trepidavano d’aria
sotto l’arcata solitaria illuminata dal cielo.
 
Ai monti pallidi d’ali sorgevano voci remote,
per strada le ruote dei primi carri, i fanali
tenui nel vetro dell’aria, trasparenza del verde
fresco delle persiane; lungo i cancelli
il sole era un caldo cane addormentato tra i monelli.

 

 

Io penso ai morti
 

Nella pioggia che batte e scioglie i cieli
- i grandi cieli all’improvviso soli -
io penso ai morti, udranno a lungo i treni
chiamare in sogno le città perdute
e dare ai nomi dell’addio la voce
che resta della sera.
 
Sei, a chiamarti, il nome delle sere
che non risponde, ma potresti avere
bisogno del racconto, d’una voce,
per questa pioggia che ti fa più sola
dei lumi senza requie.
                                        Tornerai
dalle musiche morte, dalle gronde
dei tuoi mattini, amore che riprendi
dal naufragio l’ala del tuo volo.

 

 

Soldati
 

Al lampo delle ringhiere
fiammanti chicchirichì
i soldati dicono di sì
con tutti i piedi.
La chiave giusta
d’ogni suo dente
la chiave che gusta
il giro mordente
e terra ch’è terra
vivaddio d’un comando.
Solo una voce che non disse nulla
fu sola la voce, ma quando?
O voi che passate,
in ogni tempo una culla
porta un bambino innocente.
O voi che morite per niente,
fu sola la voce.
E chiodi e galli e patrie levate
e soldati di sì per una croce?

 

 

Osteria flegrea
 

Come assidua di nulla al nulla assorta
la luce della polvere! La porta
al verde oscilla, l’improvvisa vampa
del soffio è breve.
 
Fissa il gufo
l’invidia della vita,
l’immemore che beve
nella pergola azzurra del suo tufo
ed al sereno della morte invita.

 

 

Chiesa veneziana
 

Così, da sempre, come una memoria
che mai giunge a sbiadirsi, che mai perde
la traccia immaginosa, questa storia
di pietra e d’acqua, di laguna verde,
 
tratteggiata dai neri colombari
delle mura, da lapidi di rosa,
s’è fatta chiesa aperta agli estuari,
all’incrocio dei venti. Non riposa
 
mai tomba che non veda la sua morte
frangersi ancora contro il nero eterno.
E le gondole, battono alle porte
i lugubri mareggi dell’inverno.