POESIE SPARSE - Da "TUTTE LE POESIE (1940 - 1953)" di Ricco Scotellaro

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Rocco Scotellaro (Tricarico 1923 - Portici 1953) fu uno dei maggiori poeti e intellettuali lucani impegnato nel vivo delle problematiche del secondo dopoguerra. Di umili origini, socialista, fu sindaco di Tricarico dal 1946 al 1950, quando fu arrestato sotto l’infondata accusa di irregolarità amministrative; in seguito, grazie all’intervento di Carlo Levi, ottenne un impiego presso l’Istituto agrario di Portici diretto da Manlio Rossi Doria. Sue opere sono state pubblicate postume: l’inchiesta Contadini del Sud (1954), il romanzo autobiografico incompiuto L’uva puttanella (1955) e una serie di poesie (È fatto giorno, 1954) nelle quali, muovendo dai modi elegiaci dell’ermetismo, tende a un tono epico-popolaresco, con esiti pieni di dissonanze, ma d’indubbia genuinità lirica. In seguito sono stati pubblicati il volume di racconti Uno si distrae al bivio (1974) e la raccolta di versi Margherite e rosolacci (1978). Nel 2004, Mondadori ha pubblicato Tutte le poesie (1940 - 1953). Nel 2019 la sua intera produzione letteraria è stata raccolta, sempre da Mondadori, nel volume Tutte le opere.

 

 

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POESIE SPARSE - Da TUTTE LE POESIE (1940 - 1953) (Mondadori 2004)

 

 

La città mi uccide
 
Datemi pure a mangiare il pane della questua
nero indurito, ho tanta voglia di lavorare.
Si sono mangiati i miei calcagni
queste strade d’asfalto dure a pestare.
Era nel vento una pioggia di piccoli prezzi
sulle immobili merci delle vetrine.
Sfolgorava sui cartelloni gente
che usciva quella volta dall’incognito
e io che minuzzavo alacremente
la cronaca viola dei miei passi perduti.
Oh stanco appendermi lo sguardo
alle luci al neon infinite.
Sentite furie: alberghi e panifici
e padroni che muovete questa ruota
orrenda che ci stride sulle carni,
ditte, navigatori, capitani sentite:
eccovela la testa del mercenario
accalappiata nel vostro frustone.
Mi avete inutile respinto
ad alloggiare nelle ville
accanto agl’immondi vespasiani
e la notte mi bastonano i ladri
le prostitute mi sputano addosso.
Gerusalemme, Gerusalemme!
I porci hanno invaso gli ulivi
sotto la luna lontana,
la moda si dà convegno
nel tempio sontuoso
Bari, Napoli, Roma, Milano
i fiori, gli uccelli, la donna
qui si comprano
e io cammino con la mano al cuore
perché a forza potrebbero rubarlo.
 
 

La terra mi tiene
 
Lunga strada seppur deserta
dove puoi menarmi non vedo
punto d’arrivo.
 
Scordarmi i vivi per ritrovarli
con tutto il peso che mi porto
della vita che m’è nata
i fiori son cresciuti la luce li accende.
 
Sradicarmi? la terra mi tiene
e la tempesta se viene
mi trova pronto.
 
Indietro
ch’è tardi
ritorno a quelle strade rotte in trivi oscuri.
 
 

Era la cavalcata della Bruna
 
Afflitti ulivi
sui tufi di Matera.
O gli amari poemi
delle morte stagioni!
 
È una notte che fugge la faina
coi suoi occhi di brace.
E gli antenati ecco sentirsi in canti
per la campagna acquattata:
erano i cafoni in quadrigliè,
passava la cavalcata della Bruna
a risvegliare le caverne
sui bordi delle rocce
al di là della collina,
era il silenzio dell’acqua infossata
che faceva tuonare la Gravina.
 
 

Sempre nuova è l’alba
 
Non gridatemi più dentro,
non soffiatemi in cuore
i vostri fiati caldi, contadini.
 
Beviamoci insieme una tazza colma di vino!
che all’ilare tempo della sera
s’acquieti il nostro vento disperato.
 
Spuntano ai pali ancora
le teste dei briganti, e la caverna –
l’oasi verde della triste speranza –
lindo conserva un guanciale di pietra...
 
Ma nei sentieri non si torna indietro.
Altre ali fuggiranno
dalle paglie della cova,
perché lungo il perire dei tempi
l’alba è nuova, è nuova.
 
 

Noi che facciamo?

Ci hanno gridata la croce addosso i padroni
per tutto che accade e anche per le frane
che vanno scivolando sulle argille.
Noi che facciamo? All’alba stiamo zitti
nelle piazze per essere comprati,
la sera è il ritorno nelle file
scortati dagli uomini a cavallo,
e sono i nostri compagni la notte
coricati all’addiaccio con le pecore.
Neppure dovremmo ammassarci a cantare,
neppure leggerci i fogli stampati
dove sta scritto bene di noi!
Noi siamo i deboli degli anni lontani
quando i borghi si dettero in fiamme
dal Castello intristito.
Noi siamo figli dei padri ridotti in catene.
Noi che facciamo?
Ancora ci chiamano fratelli nelle Chiese
ma voi avete la vostra cappella
gentilizia da dove ci guardate.
E smettete quell’occhio
smettete la minaccia,
anche le mandrie fuggono l’addiaccio
per qualche stelo fondo nella neve.
Sentireste la nostra dura parte
in quel giorno che fossimo agguerriti
in quello stesso Castello intristito.
Anche le mandrie rompono gli stabbi
per voi che armate della vostra rabbia.
Noi che facciamo?
Noi pur cantiamo la canzone
della vostra redenzione.
Per dove ci portate
lì c’è l’abisso, lì c’è il ciglione.
Noi siamo le povere
pecore savie dei nostri padroni.
 
 

Noi non ci bagneremo

Noi non ci bagneremo sulle spiagge
a mietere andremo noi
e il sole ci cuocerà come la crosta del pane.
Abbiamo il collo duro, la faccia
di terra abbiamo e le braccia
di legna secca colore di mattoni.
Abbiamo i tozzi da mangiare
insaccati nelle maniche
delle giubbe ad armacollo.
Dormiamo sulle aie
attaccati alle cavezze dei muli.
Non sente la nostra carne
il moscerino che solletica
e succhia il nostro sangue.
Ognuno ha le ossa torte
non sogna di salire sulle donne
che dormono fresche nelle vesti corte.