Su “ATELIER D'INVERNO” di Remo Pagnanelli e su “LO SGUARDO CHE SI ALZA” di Maria Grazia Maiorino. Note critiche a cura di Guido Garufi


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AUTORI DI MARCA
Esplorazioni sulla pagina dell’unico Libro
Parte prima
 
Di Guido Garufi
 
È uscito, fresco di stampa, per le raffinate edizioni di Anima Mundi, nella collana diretta da Franca Mancinelli e Rossana Abis, Atelier d’inverno di Remo Pagnanelli. Questo libro è importante per una serie di motivi, ne elenco due che a me paiono interessanti. Il primo è che se è vero che Atelier uscì nel 1985 con una prefazione di Giuliano Gramigna e che doverosamente fu replicato nell’opera omnia curato doviziosamente da Daniela Marcheschi nel 2000, è altrettanto vero che la madre di Remo, Luigia, nel 2000, recuperava riassestamenti, rimodulazioni, varianti operate da Pagnanelli nel gennaio 1987, anno della sua morte. Il secondo motivo è il taglio che l’editore, oggi, reclutati i manoscritti originali presso il Gabinetto Viessieux di Firenze, ha voluto imprimere all’ottima e necessaria pubblicazione: la centralità del tema-ideologia “invernale” che la raccolta di Remo ci consegna. Lo testimoniano una prefazione che è un microsaggio di Roberto Galaverni e una nota non marginale di Milo De Angelis. Galaverni punta alla sostanza di questa raccolta sostenendo che Atelier resta “uno dei libri di poesia più rappresentativi di fine secolo, tanto più tra quelli scritti dalle nuove generazioni”. Confesso che ho sempre sostenuto la “eccentricità” di questa raccolta (ovviamente quella ai tempi pubblicata), forse per un mio disagio ritenendo (al contrario di Gramigna) la presenza di una terminologia estratta dalla psicoanalisi troppo autocentrata. Ne discutevo con Remo proprio perché (dicevamo tra noi ridendo) la “psicoanalisi è quella malattia che pretende poi di essere, allo stesso tempo terapia” come scriveva Karl Kraus, amato da entrambi. Oggi, dopo tanti anni, mi accorgo che gli “assestamenti” a posteriori introdotti dall’amico di sempre mi smentiscono e ne sono contento. Infatti il tema della glaciazione-freddo fa parte della schiera di Spiriti Magni della terza grande generazione novecentesca, da Sereni a Zanzotto, attraversando Sanguineti, Luzi o Giudici. Non è poco se Atelier d’Inverno testimonia questa apparente fine del Secolo. Ma fine non è quella del Novecento, come si potrebbe argomentare, anzi. Nei dattiloscritti e varianti “novissime”, nelle posizioni “tipografiche”, si è di fronte ad un nuovo testo, “arrotondato” da una “lettura ad alta voce”, l’unica che consenta (Leopardi docet) di rendere levigato il ritmo, di limare la ruggine, di “sottrarre” che è poi la vera la bussola dei poeti. Nella intrigante nota di Milo De Angelis il cui titolo è necessario qui replicare, Remo Pagnanelli e la passione del ragionamento, Milo ricorda il suo primo incontro con il nostro amico, a Porto San Giorgio, presso il bar della stazione nel 1981. Sono testimone di quel giovane “incontro a Teano” perché era presente un altro scriba sangiorgiese, Alessandro Catà che De Angelis bene conosce, mi sfugge se tra i cari fantasmi ci fosse presente anche Eugenio (De Signoribus). Ecco: la passione del ragionamento è, per me, ancora oggi, la sostanza del pensiero poetante di Pagnanelli, più precisamente l’idea di una poesia (e della letteratura voglio aggiungere) come “problema”, meglio ancora come filtro o lente di lettura del mondo. Non a caso Galaverni insiste su questo fronte-frontiera: “Quando all’inizio degli anni Novanta ho cominciato a leggere le sue poesie e i suoi saggi critici, la mia impressione è stata infatti quella di trovarmi davanti a qualcuno che mi poteva insegnare moltissimo. Un maestro insomma”. Cosa aggiungere da parte mia? Forse solo questo per dare un contributo che la nuova edizione di Atelier mi sollecita: nel 1981 uscì una piccola antologia scritta a quattro mani da me e da Remo sulla nuova generazione della poesia marchigiana. Fiutammo quattro autori, D’Elia, Scarabicchi, Piersanti e De Signoribus, ai tempi “neonati”. Il fiuto non mentì se poi costoro, col passare degli anni uscirono per editori come Einaudi o Garzanti. Ecco: il fiuto e il gusto, mai tuttavia come passatempo “estetico”, ma solidamente ancorato a letture ed impegno “critico”, all’esercizio del dubbio, al costante lavoro “matto e disperato” sulle sudate carte. Alcuni, ancora, hanno raccolto questa eredità e testimonianza.

Maria Grazia Maiorino esce per Moretti e Vitali (2022) con Lo sguardo che si alza affiancato da una precisa e decisa nota critica di Paolo Lagazzi. Il lungo e incessante laboratorio di Maria Grazia rende giustizia alla sua fatica e alla sua passione. Un “patire” autentico, affiancato, c’è da ammetterlo e ricordarlo, dalla sua “solidarietà” al gruppo di “Ancona”, quello che elaborò l’idea, non pretestuosa, della “Residenza”: erano i tempi di Franco Scataglini, Gianni D’Elia, Francesco Scarabicchi e Massimo Raffaeli. Un vero e proprio “quadrilatero amicale”. Lo ricordo bene e con affetto. La Maiorino, ai tempi, è suggestionata dalla “concentrazione” simbolica degli Haiku. Di questi recepisce sia la suggestione “sintetica”, ossia la leggerezza, quella che i latini chiamavano con più pregnanza levitas. In più, da grande lettrice qual è, si addentra in testi di filosofia orientale oltre che assiduamente e fino ad oggi sulle pagine degli Spiriti Magni. Si sa che per scrivere è necessario leggere, e leggere molto. La Biblioteca di Monaldo docet. Non tutti, nella società liquida e veloce lo fanno. Da qui si diparte una seconda via e una organizzazione testuale più allargata, orizzontale e allungata. E da qui, probabilmente, da una matrice antica (l’autrice è di Belluno), si attiva un fecondo bipolarismo: quello dell’altezza dei suoi monti, direi della paternità “alta”, interrotta dalla magia delle linee carsiche che nascondono e fanno riaffiorare l’acqua, e quello della planarità “marina”, della sua seconda patria, Ancona. Diverse sono le sue raccolte di versi, a partire dai primi anni ’90, la prima dei quali, E ho trovato la rosa gialla, io accolsi con autentica amicalità. Quanto allo stile direi che in Maiorino è implicita la “linea lirica” che si fa forte grazie alla “pronuncia”: questa consiste in una tensione vocativa (e invocativa) che corre incessantemente lungo i suoi versi, apparentemente atonali, non cantabili. L’attrazione è dunque determinata non da una musicalità quanto invece, da un difficile (e fisiologico) “gioco” capace di connettere visioni, cromatismi, abbagli, avvistamenti, luci, insomma una geografia del paesaggio che diventa “parlante” nel suo silenzio, quasi orante e liturgico. Non è facile. Dentro questa griglia, l’ultimo libro, costituisce un consuntivo. La ri\flessione di Maria Grazia su se stessa, una sorta di agostiniana autopsia, la porta ad utilizzare il “ricordo” o la “memoria” dilatando il tempo, estendendolo al massimo ricorrendo, ad esempio, a citazioni veterotestamentarie, come la scala di Giacobbe che porta verso la luce. Ne deriva una soluzione di continuità tra passato e presente, ovvero tra principio e fine, ma non della vita ma dell’Universo che qui “parla” attraverso questa poesia, in alcuni luoghi come in stato di trance. Sosteneva Jung che “l’inconscio non è psichicamente datato”: sospetto che Lo sguardo che si alza sia contemporaneamente quello del bambino e dell’antico esercizio della levitas che in questo caso è, nella sua leggerezza, Volo. Come quello di una piuma o di un petalo (di una rosa…).