Su e da "A FORMA D'ERRORE" di Ivano Ferrari. Con una nota critica di Lorenzo Fava
Ivano Ferrari è nato a Mantova nel 1948.
Ha lavorato nel mattatoio cittadino e per il Palazzo Te.
Ha esordito nel 1986 con A forma d’errore (Forum); suoi versi sono stati inseriti nell’antologia Nuovi poeti italiani 4 (Einaudi 1995).
Sempre con Einaudi ha poi pubblicato le raccolte La franca sostanza del degrado (1999), Macello (2004) e La morte moglie (2013 - Premio “Giovanni Pascoli” 2014). Un altro suo libro di poesie, Rosso epistassi, è stato pubblicato da Effigie nel 2008.
È morto nella sua città natale il 28 aprile del 2022.
Iniziai a leggere Ivano Ferrari nell’inverno del 2015, quando un amico poeta portò a casa, una sera di pioggia, La franca sostanza del degrado, di cui mandai subito a memoria il testo in copertina. Col tempo lessi anche il leggendario Macello, poemetto per frammenti dove Ivano fa i conti con il suo lavoro in un mattatoio. Rosso epistassi (effigie 2008) è nella mia memoria il libro dove più la dimensione “carnale carnale” si coniuga ad una dolorosissima visione che coagula nei lemmi, imperativa e sintomatica di un’esperienza poetica che, nonostante anche un altro capolavoro come La morte moglie sia uscito in Bianca Einaudi, è sempre rimasta appartata, fedele a se stessa. Ho avuto la fortuna di ascoltare la voce del poeta mantovano via telefono per un abbondante quarto d’ora attorno al 2018. L’umiltà di quel signore ormai anziano mi colpì. Lo avevo chiamato, dopo aver sentito una libreria di Mantova di cui è stato cliente, direttamente al fisso di casa sua. La biblioteca maceratese della facoltà di lettere mi consentì di leggere il suo esordio, A forma d’errore, del 1986. Ivano venne poi inserito nell’antologia einaudiana Nuovi poeti italiani 4. Alcuni emistichi, quando non interi versi o distici, da A forma d’errore riappaiono nei libri successivi, in primis proprio ne La franca sostanza del degrado, ma non è il caso mi avventuri qui in un discorso di variantistica che non ho le competenze né i volumi per fare. Ricordo che Antonio Moresco, per Ferrari come un fratello, dice nella quarta di copertina di Macello che quella di Ivano, “se non vivessimo in un paese di morti viventi sarebbe una voce centrale della poesia dei nostri anni”. Sottoscrivo. La musica secca, apparentemente antiprosodica della voce di Ivano Ferrari fa il paio con la carnosità dei referenti linguistici, e non parlo solamente di Macello, dove questo è evidente anche visto il tema che la raccolta scandaglia. A forma d’errore rende già conto a mio avviso di tutti i tratti distintivi di questa poesia: “Scrivere è cercare un paesaggio bello sodo” recita un verso della poesia che apre questa plaquette pubblicata da Forum/Quinta Generazione. Ivano Ferrari è un “sentenziatore”, un poeta di drastica ironia, “laconico per troppo accumulo, sarcastico per troppa grazia”, un poeta distante dall’elegia per la sua musica spezzata, la tensione costituita ed immediatamente rotta dei suoi versi. “Un inchiostro che cerca forma nella fiaba, nell’ironia, nel sasso del quotidiano, dove i giganti, come tanta poesia d’oggi, non sanno come inciampare, o non mettono conto di poter inciampare”, scrive Nico Orengo nella postfazione a A forma d’errore. “Le parole non spiegano una sola / delle bellezze di quest’ora / il tempo si è suicidato / nei gesti di chi si affida / agli spostamenti d’aria dei quaderni” scrive Ferrari, ed io penso ad una delle questioni che riguardano il dibattito poetico della modernità: da quando il poeta perde, baudelairianamente, l’aureola che aveva portato nei secoli precedenti, la poesia può aver connaturata una funzione salvifica? I titoli dei libri di Ferrari hanno, nessuno escluso, insita la contezza di “morte”, di “degrado”, di “errore”. Azzardo un parallelismo, forse fuori fuoco, sicuramente coraggioso: come una bestemmia per un fervente cattolico può essere la più alta delle preghiere, così la poesia per Ivano Ferrari è quello strumento che non solo costituisce una lucidissima cronaca della sua esistenza (“come serpe avvinta ai nervi / la notte si annida nelle ossa / di cosa è morto il giorno?”), ma anche una rendicontazione lirica della tragedia (“si corica al tuo fianco l’orizzonte / e il sole non fa più rumore”). “Chi nella morte di un altro vede già un po’ della propria sta comprendendo, si sta riconoscendo. Se nella prima parte la durezza, a volte, lascia il passo alla pietà, nella seconda, la sventura della malattia perde nei confronti della dolcezza, dell’amore totale di chi accompagna in ogni gesto, ogni ricordo”, scrive Gianni Montieri in una nota nell’anno di uscita de La morte moglie (2013). Il libro è infatti formato da due speculari sezioni: se la prima riprende toni e temi di Macello, la seconda, dilaniante, contiene poesie sulla morte della consorte, a cui il libro è dedicato. Andando a memoria, mi sembra che ne tracci una vera e propria cronistoria, andando dalla malattia fino ad oltre la scomparsa. Ed è forse proprio quella sezione di quel libro che rappresenta il compimento, la quintessenza di una voce che ha saputo variare senza snaturarsi e toccato vette di lirismo che pochi oggi intendono. Montieri nella sua nota sperava ci sarebbero stati poeti a chiamarlo Maestro. Io sono uno di quelli, e lo dico da ben prima della morte dello stesso Ivano, avvenuta nell’aprile del 2022. Il testo cui mi riferivo da La franca sostanza del degrado è uno dei più iconici manifesti non della poesia di Ferrari, ma di una maniera di concepire la poesia che “cambia lenzuola rapendole al dolore”, dal momento che lo stesso Ivano scrive, in Rosso epistassi: “non c’è strada che sfugga al dramma lento dei miei lemmi / non c’è storia senza lo sfrigolio di serpi nelle torri”. In copertina La franca sostanza del degrado ha: “Sparo su di uno straccio usato / sull’esistenza scaltra dei rimorsi / sono come la luna condannato / a stare in alto per colpa dei poeti / piloti senza viaggio o latitanti. Prendo in ostaggio i raggi / – di sole ora si parla – / reliquie di luce clandestina / da lì sparo sulle ombre meridiane / sui feudi di catrame delle favole / vado in verso e uccido io per voi”.
Lorenzo Fava
Da A FORMA D’ERRORE (Forlì, Forum/Quinta Generazione 1986)
*
le parole non spiegano una sola
delle bellezze di quest’ora,
il tempo si è suicidato
nei gesti di chi si affida
agli spostamenti d’aria dei quaderni
*
come serpe avvinta ai nervi
la notte si annida nelle ossa
di cosa è morto il giorno?
*
s’avvia la disputa
su quanto del paesaggio
ricomincia
col guizzo di una smania
assunta dalle pietre
come avances
*
lasciamo morire gli occhi
in una pace canarina,
valga per devozione il lampo
che incabala la vista
in cornee satolle di connessi,
al cinema i batteri
commentano pertugi, s’evolvono,
e persino irrompe il brandy,
lasciamo morire gli occhi
sullo schermo
*
è l’importanza del sospetto
a fare di una paginetta torva
una falla a tempo pieno
l’indizio trascurato
per un curioso singhiozzo
passa la carne tagliata a stella
sui fogli bianchi affondati negli occhi,
di tanto in tanto, la grafia dei gesti
disegna la paura così vicino
da schiantarsi sulla faccia
coi piedi per terra passi veloci verso dio
su corde d’altalena
*
gesto
prima che sogno
anomalia del prezzo
tramutato in fiaba,
chino sul chiaro
di un riflesso steso
al rovescio
*
e le unghie
abbracciate al viso
sono tremula catarsi
dopolavoro
tra parole e maree