Su e da "A GRANDEZZA NATURALE (2008 - 2018)" di Raffaela Fazio. Recensione di Carlo Giacobbi

 

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Raffaela Fazio, nata ad Arezzo nel 1971, risiede a Roma dove lavora come traduttrice. Ha trascorso dieci anni in vari paesi europei, laureandosi in lingue e politiche europee all’Università di Grenoble, e specializzandosi presso la Scuola di Interpreti e Traduttori di Ginevra. Rientrata in Italia, ha conseguito un diploma in scienze religiose e un master in beni culturali presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Nel campo dell’iconografia, ha pubblicato: Face of Faith. A Short Guide to Early Christian Images (2011). È autrice di vari libri di poesia. Tra gli ultimi: L’arte di cadere (Biblioteca dei Leoni 2015) con prefazione di Paolo Ruffilli; Ti slegherai le trecce (Coazinzola Press 2017) con postfazione di Francesco Dalessandro; L’ultimo quarto del giorno (La Vita Felice 2018); Midbar (Raffaelli Editore 2019) con prefazione di Massimo Morasso; Tropaion (puntoacapo Editrice 2020) con prefazione di Gianfranco Lauretano e postfazione di Sonia Caporossi; Meccanica dei solidi (puntoacapo Editrice 2021) con traduzione inglese di Patrick Williamson e prefazione di Paolo Ruffilli. Si è inoltre occupata della traduzione di Rainer Maria Rilke, le cui poesie d’amore sono state raccolte in Silenzio e Tempesta (Marco Saya Edizioni 2019), e di Edgar Allan Poe (Nevermore. Poesie di un altrove, Marco Saya Edizioni 2021).

 

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          Nella silloge in commento Raffaela Fazio opera una sorta di redde rationem della sua produzione poetica intercorsa tra il 2008 ed il 2018.
          Un decennio, dunque, che ci consente di sviluppare un’indagine diacronica sugli aspetti contenutistici e formali assunti dalla poetessa a cifra stilistica della propria versificazione.
          A voler effettuare una sorta di sistemazione dei topics rinvenibili nel macrotesto, con tutti i limiti insiti in ogni intento classificatorio, si potrebbero utilizzare tre categorie ontologiche: a) l’essere in mundo (di cui alle sezioni Il senso e l’andatura e Cento modi per chiamare o nessuno); b) l’essere pro mundo (pertinente alle sezioni Voci abitate, Prospettiva inversa e Tra visione e forzatura); c) l’essere ultra mundo (relativo alla sezione Altro da Te).
          Le categorie di cui s’è fatta menzione, infatti, sembrano connotare la linea diegetica del corpo testuale, ove l’io, principiando dalla propria contingenza, ma in una progressiva maturazione della sua kènosis, si rende spazio d’asilo dell’altro-da-sé (degli affetti parentali, del rapporto amoroso) fino a giungere all’indicibile del “Totalmente Altro”, così ponendo in dialettica immanenza e trascendenza, per mezzo di modalità espressive che evocano, specie riguardo ai temi, le inquietudini luziane.
          La Fazio assume a motivo poetico la questione del senso, del telos d’un voyage, ovviamente esistenziale, che indaga la sua andatura per mezzo d’una corporeità, rectius, di un «corpo» (cfr. p. 25) di cui l’autrice denuncia limiti e contraddizioni (quali ad esempio il suo essere «fuori posto» (cfr. ibidem), il suo non avere «coerenza né confini o validi argomenti», cfr. ibidem).
          L’io-lirico, consapevole dell’imperscrutabilità degli eventi, del fatto che «Non ci è dato sapere / qual è il tempo, né il modo» (cfr. p. 17), sembra invenire una possibilità gnoseologica nell’attraversamento del dolore (cfr. p. 17 cit., «il dolore ha il suo guado») e coniuga la percezione dell’hebel qoelettiano (dell’«Essere un niente, un soffio» di p. 43) con la pervicace volontà di essere, sia pure quel niente, ma «a ogni costo» (cfr. p. 43 cit.).
          Una prova, così la definisce la Nostra, di cui farsi carico in prima persona, poiché il «cadere, rialzarsi» (cfr. ibidem) in cui si sostanzia il mestiere di vivere, è fatto proprio, non delegabile: «non c’è delega / in questo» (cfr. ibidem) sentenzia la poetessa.
          È un dire, quello della Fazio, che sebbene conscio della finitudine umana, del «poco fiato / del cuore caduco che spera» di p. 42, non ripiega in pose nichilistiche o in forme di vittimismo compiaciuto.
          L’autrice, anzi, reagisce alla vanitas, opponendo al breve soffio dell’esistere o al «tempo (che) si fa breve» (cfr. p. 76), l’eccedenza dell’amore, la sua dismisura sul facere, sul quotidiano e spesso sterile affaccendarsi, convinta, appunto, che «l’amore eccede il fare» (cfr. p. 20), che «Non c’è amore / (…) / che è sprecato» (cfr. p. 29) e che, in definitiva, ciò che dà senso all’essere in mundo è «soprattutto amare» (cfr. p. 43).
          Ma più che di opposizione, si tratta qui di abbandono, di fiduciosa resa al «destino» (cfr. p. 52) che accomuna «ogni uomo» (cfr. ibidem), di offerta del sé «al mondo» (cfr. ibidem) nonché «al cielo» (cfr. ibidem), nel momento in cui, in tale ultimo caso, al termine dell’esperienza terrena, ciascuno sarà «una cosa sola contro l’orizzonte» (cfr. ibidem), per diradarsi in esso, per lasciarsene assorbire.
          Nelle partizioni mediane dell’opera (pp. 81-144), il dettato poetico è abitato da voci familiari (cfr. Voci abitate, pp. 79-91); l’autrice pone in dominante la dimensione domestica dei primitivi legami affettivi, i flashbacks di un’infanzia resa mediante un immaginario rassicurante: «Il filo di luce / sotto la porta chiusa» (cfr. p. 81), «il libro di preghiere» della nonna (cfr. p. 82), la «calda (…) teiera» (cfr. p. 85).
          Più in là, la prospettiva tematica si fa inversa (cfr. Prospettiva inversa, pp. 93-119): all’essere nipote e figlia succede l’essere madre; madre che riconosce stupita nei figli una forza gratuitamente concessa (cfr. p. 95, «Che strana forza la forza / che mi concedi») e che, essendo in intima unione con gli stessi (cfr. p. 109, Sizigie), deve anche naturaliter 
soffrire per il loro pianto, per i loro silenzi (cfr. p. 114, «gli occhi rossi, il viso rigato / c’era in te più silenzio / che nel resto del cosmo»).
          In Tra visione e forzatura (cfr. V, pp. 121-144) la poetessa oscilla tra amore e disamore; da un lato non crede nell’amore che si erge «spavaldo» – cfr. p. 124 – (nel suo darsi, forse, come entità definitiva e prevaricatoria), prediligendo quindi la dimensione cairologica dell’attesa; dall’altro lo invoca come già presente e lo esorta a restare, a rendersi diuturnus per mezzo di un’opzione atta a rinnovarlo quotidie: «Amore rimani. / Aiutami a sceglierti / anche domani» (cfr. p. 126). Nella dinamica relazionale di cui trattasi, infatti, nulla può ritenersi definitivamente acquisito, poiché l’amore è un farsi, sempre in fieri, commixtus di prossimità e lontananza, tale da non poter essere uguale a se stesso (cfr. p. 137, «l’amore (…) / non sarà lo stesso») poiché sempre in divenire.
          La silloge si chiude con la sezione Altro da te. In essa, la Nostra, chiama in causa la trascendenza, il divino, l’assoluto a-spaziale ed a-temporale che si relativizza nel tempo e nello spazio (cfr. p. 147, «Ossimoro incarnato») per rendersi universale, accessibile a tutti, essendo «Dio dei diademi» (cfr. p. 147) ma anche e soprattutto «dei fondi di bottiglia» (cfr. ibidem); entità di cui la Fazio invoca la chiamata infinita (cfr. p. 150, Never-ending), la sorpresa dell’ancòra di più (cfr. p. 151, Noch Meher), l’orizzonte di un oltre «che non delude» (cfr., ibidem), di una «luce (cfr. p. 154) che vinca «la notte grande e vera» (cfr., ibidem).
          Molto ricco è l’apparato figurale ove si rinvengono, a titolo esemplificativo: anastrofi (cfr. p. 106, «Vorrei avere / terrose / le vostre tasche di bacche e sassi»); polisindeti (cfr. p. 90, «e mi rispondi e mi parli / e ti rispondo e ti offro la colazione»); anadiplosi (cfr. p. 59, «Vorrei avere tempo. Tempo da perdere»); anafore (cfr. ibidem, «Vorrei avere tempo (…) / Vorrei un’anima (…) / Vorrei che il fuori (…)»; similitudini, anche con onomatopea (cfr. p. 115, «come il “tac” a sorpresa / di una goccia sul naso»); versi con cesura in due emistichi (cfr. p. 73, «Io la incurvo al sorriso. / La esploro»); epanadiplosi (cfr. p. 133, «L’amore colpisce l’amore»).
          A livello prosodico si ravvisa un continuum che percorre l’intera silloge e che si sostanzia in misure versali brevi, connotate da marcati rimandi fonici.
          Nel corpus lirico, infatti, certamente non atonale data la densa dispositio degli ictus, si rinvengono rime in clausola (cfr. p. 102, «sordina» / «farina») o al mezzo (cfr. p. 21, «ancora vetro: / cerchiamo il metro, la giusta misura» e diffuse assonanze (cfr. p. 57, «altrove» / «pudore») che enfatizzano la melopea del dettato.
          Non si vuol certo dire che la Fazio assuma a modelli della sua pronuncia le forme chiuse della tradizione: i versi sono comunque anisosillabici e spaziano dal monosillabo (cfr. p. 125, «no») al cd. verso-parola (cfr. p. 61, «Poesia») a metri eccedenti l’endecasillabo (cfr. il tredecasillabo di p. 158, «Forse è un versare di brodo ogni sera») e purtuttavia combinati in modo tale da imprimere ai testi una distinguibile scansione rimica di impronta caproniana o, a voler individuare un exemplum contemporaneo, marcoaldiana.
          L’autrice, con A grandezza naturale, ci consegna un’opera matura, caratterizzata da coesione tematica e uniformità stilistica, dalla versificazione asciutta, nettata da ridondanze verbo-nominali o aggettivali, frutto d’un accurato labor limae, d’un procedere cioè per sottrazione, che, tuttavia, mai priva la pronuncia della sua intentio comunicativa, di quell’audacia di dire che – ci sembra di poter affermare senza tema di smentita – assurge a cifra distintiva del facere poetico della Nostra valente poetessa.

                                                                                                                                         Carlo Giacobbi

 

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Da A GRANDEZZA NATURALE (2008 - 2018)

 

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A ogni oracolo un baro.
A ogni rupe il suo ossario
di indovini incoscienti.
Non ci è dato sapere
quale è il tempo, né il modo.
Ma il dolore ha il suo guado.
Scenda il fuoco su Giano
e su Adamo il torpore.

 

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Ma il corpo?
Nullatenente, è sempre fuori posto.
Non ha coerenza né confini o validi argomenti.
E ciò che sa lo tace, perché non ha mai prove.
Neanche se scorge un’ombra
seducente e lieve
infilarsi dalla postierla
cercare l’anima
fingersi fuoco per averla.

 

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Il paradosso
 
Essere un niente, un soffio
eppure esserlo
a ogni costo.
 
Per lascito
un’accordatura che invoglia
alla prova.
Ad altri
riesce meglio la nota, la vita
 
ma non c’è delega
in questo:
cadere, rialzarsi
scrollare il basto
e soprattutto amare
             scordare il resto.

 

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Ossimoro incarnato
che da noi vuoi ancora
meraviglia.
O Dio dei diademi
e dei fondi di bottiglia.

 

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Never-ending
 
Anche se hai mille fanti
chiamami. O mille amanti.
O nomi.
Chiamami
anche se l’impresa è finita
e la sorte si finge decisa.
                        Ma diversamente
chiamami
da come vorrei.
Chiamami anche se non capissi
che lo stai già facendo
o mai smettessi
di arrivare
 
in Te.

 
 
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Noch Mehr
 
Aiutami
             – né più né meno –
a spingermi verso la notte come un ramo
che sotto la prima coltre
non scorda il sole, né cerca oltre.
Solo si muove e vede
che un giorno ci sarà
                      una sorpresa in più
che non delude.