Su e da "A ORIENTE DI QUALSIASI ORIGINE" di Annalisa Rodeghiero. Recensione di Carlo Giacobbi

 

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Annalisa Rodeghiero, nata ad Asiago, si è laureata in Scienze Biologiche all’Università di Padova, dove vive. È stata docente di matematica e scienze.
Suoi testi sono apparsi in riviste, lit-blog e in numerose antologie, anche legate a premi letterari. Sue poesie e note critiche sono inoltre contenute nel IV volume Lettura di testi di autori contemporanei curato da Nazario Pardini (2019).
È collaboratrice del blog letterario “Alla volta di Leucade”.
Con l’Associazione Culturale “Arte Insieme Altopiano di Asiago 7 Comuni”, promuove la diffusione della cultura sul territorio.
È membro di giuria in premi nazionali di poesia.
Ha pubblicato: Percorrimi tutta, Art&print 2013; Di spalle al tempo, Venilia Ed. 2015; Versodove, Ed. Blu di Prussia 2017; Incipit, Ed. Stravagario 2019; A oriente di qualsiasi origine, Arcipelago itaca Edizioni 2021.
La sua opera ha ottenuto riconoscimenti in numerosi premi letterari.

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          Potremmo definire A oriente di qualsiasi origine di Annalisa Rodeghiero (Arcipelago Itaca, 2021) una sorta di promenade esistenziale in cui lo sguardo dell’io lirico – quasi affetto da rêverie cosmica nell’accezione di Bachelard – contempla l’esistente per indagare «il senso vero delle cose» (cfr. altresì «Trovare un varco al vero era l’intento», p. 20).
          Un’indagine che prende l’abbrivio da un’ostinata fides della Nostra nel ritorno di ogni entità alla sua scaturigine, al suo archè e, quindi, al suo principio vitale. Non a caso il verso incipitario dell’intera silloge così afferma: «Alla fine è l’alba».
          È con questa sentenza che l’autrice dimostra di resistere all’apparente nullificazione che il decorso temporale sembra produrre sulla realtà, a voler significare che non v’è cesura tra morte e vita, ma continuum, e che, soprattutto, alla fine segue sempre l’inizio e non viceversa.
          Detto diversamente, la Rodeghiero sembra propendere per una concezione circolare dell’esperienza (cfr. «il perpetuo ricrearsi», p. 25). Il ciclo vitale non si esaurisce nel segmento temporale tra nulla e nulla, non procede linearmente dall’alfa all’omega, né così potrebbe essere, poiché, come acutamente osserva la poetessa, «È un’invenzione il tempo / non esiste» (cfr. p. 80).
          Si vuol dire che, nell’opera in commento, la dimensione temporale viene in rilievo non nell’accezione quantitativa del chronos, ma in quella qualitativa del kairos, termine, quest’ultimo, che pone l’accento sulla significatività dell’essere nel mondo.
          Si leggano in tal senso versi quali «A lungo ho cercato nelle radici intricate / del sottobosco il senso» (cfr. p. 17) o «dici d’intuire solo adesso il senso / nel gesto supremo di creazione» (cfr. p. 62); versi indicativi, appunto, dell’esigenza tutta umana di sperimentare «una felicità solare» (cfr. p. 24), una «felicità struggente» (cfr. p. 28) per quanto ardua sia l’impresa di conseguire un’appagante pienezza.
          Ed infatti, l’appetizione, il desiderio d’assoluto che pervade le liriche – la nostalgia del totalmente altro, saremmo tentati di dire, con Horkheimer – sono quasi sempre frustrati da una compiutezza che, se da un lato s’annuncia, dall’altro non si rende mai nella sua totalità; sicché, la condizione esistenziale che ci pare venga in dominante, è quella dello stare in limine, in attesa d’una epifania salvifica che seppure in nuce o ab ovo, tuttavia resta allo stadio di promessa, in fieri, sempre attuabile sì, in procinto d’essere, ma di cui si soffre l’assenza o quantomeno la distanza.
          Locuzioni quali «ciò che deve ancora essere» (cfr. p. 26), «Accettare il senso d’incompiuto in noi» (cfr. p. 40), «Nel silenzio ocra riposa, inattuato qualcosa. / Forse un’idea di felicità sempre distante» (cfr. p. 42), sono esplicative di quanto s’è poc’anzi affermato.
          Un’incompiutezza, quella della Nostra – un «Tempo irrealizzato» (cfr. p. 57) – che genera un «volare inquieto» (cfr. p. 19) e che esige, quale rimedio, di «alzarsi in profondità» (cfr. p. 20), per giungere alla quiete di ciò che l’autrice definisce «verticalità beata» (cfr. p. 43), quasi ad evocare la benignità di una trascendenza capace di offrire riparo, dimora.
          Se infatti è vero – e non potrebbe essere altrimenti dati gli insistiti riferimenti agli archè di diversi presocratici – che la poetica della Rodeghiero muove da postulati filosofici (tra i quali spicca quello eracliteo afferente la dottrina dell'unità dei contrari e del panta rhei), non può tacersi il fatto che l’intera silloge è pervasa da una sorta di fiat lux (l’oriente, l’alba, la chiarità, il chiarore, la luce, etc.), da un rimando, cioè, che non è escludibile sia legato alla narrazione veterotestamentaria della Genesi.
          Del pari, nulla esclude che il verso « L’origine stava nel nome pronunciato» (cfr. p. 16) tragga spunto dal versetto incipitario del Prologo di Giovanni (cfr., Gv 1, 1 «In principio era il Verbo»).
          Lungi dal voler affermare che la poesia della Rodeghiero pertenga ad una 
dimensione strictu sensu religiosa, si vuole solo sottolineare che la stessa agita categorie spirituali (cfr. «ma l’anima – almeno l’anima - / sentivo svincolata dai confini», p. 16) che si confrontano con il mistero (cfr. «il mistero di certi istanti minimi», p. 40) e dunque con la percezione di un segreto ultimo di cui si attende l’apocalisse, la rivelazione.
          Così intesa, l’opera realizza un’efficace sintesi tra immanenza e trascendenza, fides e ratio, tanto da potersi definire escatologica, poiché vocata alla gnôsis dei destini ultimi dell’uomo e dell’universo.
          Il dettato poetico, elegiaco nel suo dipanarsi in senso intimistico e meditativo, dalle indubbie influenze rilkiane, procede per antitesi, per polarità o giustapposizioni (cfr. «Appartenere» vs «esserne fuori», p. 57; «Svanire» vs «ricomparire», ibidem) che non si limitano a fronteggiarsi, ma si compenetrano, si amalgamano «al tempo stesso» (cfr. p. 57), vale a dire simultaneamente, in quel processo di reductio ad unum che ci sembra rappresenti il fil rouge dell’intera silloge.
          Una poetica, quella della Nostra, dunque, metalogica, poiché avversativa del principio di non contraddizione; poetica che fa della coincidentia oppositorum il tratto distintivo, la cifra stilistica e contenutistica dei testi, alla maniera – s’è c’è concesso azzardare un paragone – di Mario Luzi, di cui la Rodeghiero recupera, oltre la versificazione a gradini, temi e concezioni esistenziali quali la perpetua oscillazione tra divenire ed essere, mutamento e identità, tempo ed eternità.

                                                                                                                                                Carlo Giacobbi

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Da A ORIENTE DI QUALSIASI ORIGINE
 
 

 

I

L’origine stava nel nome pronunciato
come un’eco ridondante
sotto le vertebre – se le vertebre
s’erano incurvate a trattenere l’anima
che non volasse troppo in alto,
era nella fisiologia del sostegno,
stretta la carne nell’evoluzione.
Ma l’anima – almeno l’anima –
sentivo svincolata dai confini,
l’anima sapeva la sua rivoluzione.

 

V
 
Trovare un varco al vero era l’intento,
alzarsi in profondità oltre il travaglio
nel fare concitato
                          tutta una frenesia di assoni
quale spreco d’ore per apporre, in fondo,
solo pietà al timore.
 
Chiedeva un fiato bianco la mia vita
e tu venivi a me come riparo.

 

 

X

 
Il primigenio lampo si era acceso nei sei sensi
a unire le due solitudini in una, sotto le costole.
A quell’uno nuovo, si accordavano le cose.
Quanto era mancato si fecondava nella fiamma
come fosse dentro una preghiera.
 
Poi sarebbe stato un continuo morire di noi
nel sacrificio.
Ma più insistente dalla brace, il perpetuo ricrearsi.
 

 

XXI
 
Accettare il senso d’incompiuto in noi
renderlo trascurabile, come una scusa detta
a fin di bene, aggiustarne il limite
definitivamente – saturare la crepa. Tacerne.
E vivere appieno il mistero di certi istanti minimi,
la loro instabile sapienza.
Ignorare ciò che non sarà. Che non potrà essere
                                     per mia, per tua costituzione.

 

 

XXIV
 
Più che la libertà
del volo invidio l’inconsapevolezza
quel gorgheggiarla intera la vita
senza battibecco dentro la selva
– tersi di cielo i nidi – nella verticalità beata.
 
Ché scavare, zampette isteriche
non appartiene al disegno primigenio.
 
 
 

XXXIV
 
Forse tutto questo indugiare
era scritto nel grembo delle madri.
Appartenere
e al tempo stesso esserne fuori
percepirne intero il peso
                                      piegarsi
complici d’acque inquiete di noi stessi.
Svanire a tratti
                  ricomparire come legno alla sua riva.
Giorno dopo giorno, vivere nel foglio ritagliato.
                                Tempo irrealizzato.

 

XXXIX

 
È un nido sulla soglia la sponda di salvezza,
il passo cadenzato del canto nell’intreccio ideale dei risvegli
quando mi dici – piango per tanta bellezza –
e candela gli occhi testimoni,
dici d’intuire solo adesso il senso
nel gesto supremo di creazione.
Mia distesa dorata
benedizione delle bocche schiuse
                                        sulla schiena
alito di meridiana nel buio quando viene
nell’acidula lingua d’usignoli.

 

 

Dov’eravamo
 
Dov’eravamo a vanificare i giorni
lunghi come ombre dell’autunno
sulle cose. Dov’eravamo ignari
ad aspettare, sghembi di sguardi
la sera che di lì a poco,
d’oro si sarebbe vestita a festa.
 
Ora non servono parole a dire
quanto pieno può essere il silenzio
nell’estasi del pianto
felice dimensione parallela
all’inquieto vivere del mondo.
 
È un’invenzione il tempo
                                  non esiste.
 
Mai l’abbiamo perso
né mai lo perderemo.