Su e da "A ORIENTE DI QUALSIASI ORIGINE" di Annalisa Rodeghiero. Recensione di Daniela Bisagno
Suoi testi sono apparsi in riviste, lit-blog e in numerose antologie, anche legate a premi letterari. Sue poesie e note critiche sono inoltre contenute nel IV volume Lettura di testi di autori contemporanei curato da Nazario Pardini (2019).
È collaboratrice del blog letterario “Alla volta di Leucade”.
Con l’Associazione Culturale “Arte Insieme Altopiano di Asiago 7 Comuni”, promuove la diffusione della cultura sul territorio.
È membro di giuria in premi nazionali di poesia.
Ha pubblicato: Percorrimi tutta, Art&print 2013; Di spalle al tempo, Venilia Ed. 2015; Versodove, Ed. Blu di Prussia 2017; Incipit, Ed. Stravagario 2019; A oriente di qualsiasi origine, Arcipelago itaca 2022.
La sua opera ha ottenuto riconoscimenti in numerosi premi letterari.
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Il nome ricevuto. Lettura di A oriente di qualsiasi origine, di Annalisa Rodeghiero
«Dove stiamo andando?». «Sempre a casa».
Novalis, Heinrich von Ofterdingen
Se – come dice María Zambrano – il poeta è prima di tutto e innanzi tutto figlio, perché si dirige verso le proprie origini, «perché tutto s’aspetta da esse e non è per nulla disposto a staccarsi da ciò che l’ha generato» (Poesia e filosofia), allora sembra inevitabile riconoscere alla poesia di Annalisa Rodeghiero, segnatamente alla sua ultima silloge poetica, A oriente di qualsiasi origine, lo stesso statuto filiale che per Zambrano contraddistingue la poesia. La poesia intesa come ricerca lucida, rigorosa (tutt’al contrario del “vago fantasticare” di cui essa non potrebbe mai contentarsi, a meno di ridursi, come osserva Valéry, a un vero e proprio controsenso) di quel “sogno originario” dove «ogni singola cosa era già in nuce/ e tutto comprendeva» (Il nome pronunciato), da cui l’uomo è stato “gettato fuori”. È il sogno verginale, “primigenio” (un lemma dotato di un’alta incidenza nei testi di questa raccolta) - la bellezza del volto amato, seminascosta nell’innocenza - a cui il poeta, al contrario del filosofo, si volge ostinatamente, e per riconquistare il quale c’è bisogno di tutta la lucidità possibile, di “tutta la luce del mondo”. Non la chiarezza diurna, del sole trionfante, ma quella tremula, albare - un crepuscolo mattinale - che germina nel punto oscillante fra la pienezza della notte (una fine) e il giorno ai suoi, primi, incerti chiarori: “un preludio, un affacciarsi lieve, un quasi nulla”. Sicché “Oriente” – alba, è un nome che si offre a noi in duplice e gioiosa accezione semantica, indicando, da un lato, una meta (l’origine) che è del pari il “sogno primario” da cui si proviene (il luogo d’origine, la casa, ricettacolo di nascite, in cui stare equivale ad essere), verso la quale tende la poesia di Annalisa; dall’altro, lo strumento (la luce albare) indispensabile a conseguirla.
L’impianto di questo libro, composto di quattro parti o sezioni (Il nome pronunciato, Le promesse della neve, Nel silenzio delle rive, Nel meridiano dell’indugio), si regge su un assunto che è anche il punto cardinale verso cui è orientata, da sempre, la ricerca della poesia, dove ogni procedere è in realtà un retrocedere, un andare a casa («La fine è da dove veniamo» recita un verso eliotiano tratto dalla poesia Little Gidding, in Quattro quartetti, citata opportunamente dalla Rodeghiero come esergo dell’ultima sezione del libro), giacché la parola poetica, a differenza di quella filosofica, “non avanza”, ma finisce per ritrovarsi, nonostante tutte le tappe percorse, nel medesimo luogo da cui era partita. «Alla fine/ è l’alba»: i due versi iniziali del testo in limine alla prima parte del libro, ne dettano già il senso e la direzione, situando il principio nel punto esatto della fine (non per nulla l’alba è comunemente definita crepuscolo del mattino), e anticipando quella coniunctio oppositorum per cui l’origine coincide con l’approdo, come recita l’ultimo verso della poesia posta a suggello della raccolta, Maggio si apprestava a esplodere.
Maggio si apprestava a esplodere
come una dichiarazione di gioia
grondava luce sopra foglie d’acqua.
Tu mi scendevi negli occhi
come il seme alla terra
e mi davi la cura.
Ondeggiando spighe alla nuca
nei giorni brevi dei papaveri.
Chiedere anni agli anni – credere
nella scelta di coraggio
era il messaggio sulla bocca di mora.
– Con tutti gli occhi che ho ti guardo – dicevi
ed erano spaventosamente belli e d’oro
dentro la promessa «dei passi cadenzati – ricordi –
nella galleria aperta dalle ali di fuoco».
Seneca mentiva
io ero dappertutto e in ogni luogo
mentre a te sogno cantavo
cantavo a te, origine e approdo.
L’attitudine «preziosamente arcaista» che giustamente Morasso, nella sua bella prefazione, riconosce alla poesia della Rodeghiero si spiega proprio con questa fedeltà al sogno arcaico, per cui la parola “non traccia percorsi”, ma “va come persa” (Morasso parla acutamente di una «percettività trasognata») muovendosi nella foresta delle grandi immagini archetipiche (le quattro archai: acqua, terra, aria, fuoco), che, oltre ad attestarne l’ambizione bachelardianamente cosmogonica, rimarcata ancora da Morasso, la riconducono sotto il denominatore festivo/ favoloso di un Pavese talvolta, anche esplicitamente, evocato: «ed era estate, quella di Pavese/ ed era sempre festa nelle strade/ e nelle chiese» (Parole vergate, in Il nome pronunciato). L’alta incidenza di lemmi quali festa, sacro, sacrificio, anima (un termine quest’ultimo di prepotente suggestione cvetaeviana), la predilezione per le grandi immagini di una Natura mitica – luogo in cui un’infanzia immobile “continua a soggiornare” – così sororalmente legate alle figure simboliche dell’immaginario pavesiano, appunto (la terra rossa, la notte cosmica, la luna, l’alba stessa, il sangue – segno indiziario di sacrificio e di nascita o di nascita sacrificale), sono dati sufficienti a testimoniare un’intimità con il mondo che tradisce l’inequivocabile carattere festivo di questa poesia. Carattere festivo da cui traspare la vocazione quasi battesimale di una parola poetica ancora disposta a confidare nella virtù taumaturgica, salvifica dell’alba, quale guida, visione che “mette in moto la vita innamorandola” – come se questa apparizione numinosa, che ci lambisce da un estremo all’altro con i tocchi di una grazia attimica e inafferrabile – ci consentisse di vedere le cose sotto la costellazione festiva (e inedita) del miracolo: nella luce del dono e della nascita.
Luce sopra ogni filo d’erba all’alba
alba di luce sugli abeti in fila.
Ad ogni fronda di pioggia
una lanterna e nella terra franta
perderà dimora la paura.
Salirà il respiro di radice alle narici.
I giorni guariranno con i giorni. (Nel meridiano dell’indugio)
Non una nascita intesa come avvento definitivo, accaduto una volta per tutte, sebbene qualcosa che è sempre per essere, riposante nella mandorla di una promessa che ha il medesimo colore bianco di questa luce primiziale - nel «tempo sacro dell’incompiutezza» (è un verso tratto da Se non io a consegnarmi a Dio, nella terza sezione del libro). È perciò – affinché si adempia quella promessa – che il patto di alleanza con la luce albare va rinnovato ogni giorno. Ogni giorno il nome, con cui le creature ottengono il diritto di entrare nella festa del mondo, dev’essere “pronunciato”, come recita il titolo della prima sezione del libro. Senza dimenticare che il nome pronunciato, è essenzialmente un nome ricevuto, giacché l’importante non è avere l’essere, ma “averlo in dono”, come dice Zambrano, e soprattutto attenderlo, in libera passività, indugiando nel sogno bianco delle vigilie, nella speranza che con esso si adempia, prima o poi, la pienezza desiderata.
Daniela Bisagno
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Forse tutto questo indugiare
era scritto nel grembo delle madri.
Appartenere
e al tempo stesso esserne fuori
percepirne intero il peso
piegarsi
complici d’acque inquiete di noi stessi.
Svanire a tratti
ricomparire come legno alla sua riva.
Giorno dopo giorno, vivere nel foglio ritagliato.
Tempo irrealizzato. (Nel silenzio delle rive)
*
Accettare il senso d’incompiuto in noi
renderlo trascurabile, come una scusa detta
a fin di bene, aggiustarne il limite
definitivamente – saturare la crepa. Tacerne.
E vivere appieno il mistero di certi istanti minimi,
la loro instabile sapienza.
Ignorare ciò che non sarà. Che non potrà essere
per mia, per tua costituzione.
(Le promesse della neve)