Su e da "allora ho acceso la luce" di Antonio Merola. Recensione a cura di Elisa Longo. Con cinque testi dal volume

 

 

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Antonio Merola, Roma 1994, ha pubblicato il saggio F. Scott Fitzgerald e l'Italia (Ladolfi 2018). Cofondatore di "Yawp - L'urlo barbarico", collabora o ha collaborato scrivendo articoli e racconti anche per altri siti e riviste come "La Balena Bianca", "Carmilla", "Altri Animali", "Flanerì" (per cui ha curato la rubrica L’isolamento del romantico americano). Nel 2019 ha fatto parte della redazione della rivista "Atelier" ed è risultato finalista al Premio "Guido Gozzano", sezione poesia inedita. Sue poesie sono apparse su siti e riviste letterarie come "L'immaginazione" (n. 312), "Nazione Indiana", "Atelier" (n. 89), "La Bottega di Poesia" su "La Repubblica", "Nazione Indiana", "Argo - Poesia del nostro tempo", "Poetarum Silva", "Pioggia Obliqua" e sul numero speciale di "A4 - La rivista su un foglio solo" dedicato alla poesia. È stato tradotto in inglese, spagnolo e francese su "Caravansary - Revista Internacional de Poesía" e su "The Dreaming Machine". È tra i selezionati da Alberto Pellegatta e Massimo Dagnino per il volume Planetaria - 27 poeti del mondo nati dopo il 1985 (Taut Edizioni 2020). Sempre per Taut è recentemente uscito allora ho acceso la luce. Vive a Roma, dove lavora come maestro alle elementari.

 

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Una poesia che accende quella di Merola, che si fa riflettore puntato, varco, in quelle zone d’ombra che ci accomunano e che rimuoviamo. “Non faccio che parlare di te ai codardi”. Con il libro allora ho acceso la luce, pubblicato da Taut Editori, la parola poetica si fa testimonianza, “ma nessuno, nessuno ti ha mai creduta”, di più, rimedio “vivere davvero: urgeva confessare cosa eravamo”, ancora di più, alterità. Un riconoscimento dell’altro che prende corpo e sostanza nelle poesie di Merola, che si addentra fino a esplorare “l’altro”, le diverse sfaccettature che questo tema porta e che ci accompagna in tutte le sezioni della raccolta.

La prima sezione s’intitola La vecchia casa ed è l’unica autobiografica. Merola esplora l’essere altro in un rione che negli anni si è trasformato in un quartiere ricco, la Prati di Roma, scrivendo di come si viva da poveri in mezzo all’abbondanza: “Mi sembra che io abitasse qui una volta”. Anche la lingua si sente fuori posto, si estranea, sembra non credere al paradosso che vive e che parla. Una lingua che nello straniamento non cede, non eccede, accoglie e regge l’urto con dignità, anzi alza il tiro di lemma in lemma. Merola interroga i suoi morti, parte dalle proprie radici famigliari e culturali “Ma io neppure ti conosco: Antonio Merola/ (1896-1940). Tu non sei esistito nemmeno nelle carte”. Nella poesia citata le rose crescono sopra le tombe, quasi come i Lari, si ergono a difendere lo spirito degli antenati e trasformano ciò che siamo. Merola le porta con sé, le interroga sul senso: “Raccontami: che cosa si prova ad appassire?”. Come la rosa, la poesia cresce ovunque e forse nei luoghi più impensati, e la possiamo tenere vicina e interrogarla. La risposta che sembra darci Merola attraverso i suoi versi è: “Odori”. Ecco che ricompare il concetto di altro, gli odori ci riportano alla complessità dell’esistenza, al permeabile e alla non omogeneità, alla casualità di imbattersi camminando in pochi metri quadri in un profumo inebriante e in “altro”, un odore che ci riporta alla nostra infanzia, oppure in un miasma. Tutto coesiste nella parola di Merola, si conosce nel suo valore, nel prezzo da pagare che non risparmia nessuno, nemmeno i bambini, ma che trova riscatto con dignità e fermezza “pretendere indietro ogni mattone/ degli altri, la famiglia degli altri, la felicità/ degli altri”.

La seconda sezione è allora ho acceso la luce e si apre con una citazione da Il Crollo di F. Scott Fitzgerald, non a caso. Il libro accende i riflettori e compare una figura femminile “allora ho acceso la luce: una donna/ compare oltre le mura come una felicità/ che non aveva gli occhi”. Una felicità che si accende nonostante si avverta la sensazione di qualcosa di non ancora chiaro, di non visto, di cieco, come solo la felicità senza scopo può avere, come solo l’amore incondizionato sa portare. Ed ecco che si svela nella seconda sezione il non visto, l’altro rimosso, dimenticato dalla società e da noi che spesso passiamo indifferenti e non vediamo anche a luce accesa. Merola ci racconta la vita ai margini della malattia mentale, di tutti quei non visti dopo la legge Basaglia. “Eravamo figli di una dimenticanza comune/ interiore/ ma sapevamo l’esistenza da qualche parte/ o come essere davvero soli nel mucchio:/ ci avevano lasciato allora ai margini della vita”. Una vita che non è al centro, ma che Merola illumina così che si possa vedere, guardare, parlare e, attraverso la parola, non temere. Merola ci dice che “Una contraddizione mette in fuga la poesia” non può esserci un “o…o…”, la poesia non lo ammette, ma nemmeno la vita lo ammette. Ci parla di esperienza a tutto tondo, di coesistenza, di alterità come possibilità di integrazione con noi stessi, come superamento delle nostre paure. Ci parla d’amore incondizionato per la vita e per le 
vite, quelle di chi non è al centro, non è centrato, che viene temuto per la sua alterità. C’insegna che l’amore per l’altro è cieco, ma che ci vede bene se, accendendo la luce, accoglie e coglie l’essenza dell’altro.

La terza sezione è La ricerca di una cura. Dal titolo si potrebbe intuire l’approdo a una soluzione, a un rimedio. In realtà Merola non lascia mai la mano, accompagna il tu delle poesie confortando, offrendo l’unguento della partecipazione che non è mai pietistica, ma che è comprensione, nel prendere con, nell’essere insieme e attraversare la paura di quei mostri psichici che non lasciano mai chi si trova in uno stato di estrema sofferenza: “Ho provato a portarti lontano,/ ma il mostro ci ha seguito ovunque”. Merola non si improvvisa in una soluzione, ma ci dice che ci può essere un’altra strada nella follia, che corre parallela e s’interseca alla nostra, che qualcuno cavalcando mondi fantastici, con la sua storia può andare lontano, vivere: “Così ti sei seduto su una storia./ Fuori dagli oblò della navicella/ spaziale: uno spazio interstellare. C’era ancora spazio,/ c’era piccola la Terra. Andare lontano è tutto/ qui. Lui solo: siede su una storia”. La vita si fonde alla poesia. Ancora una volta il poeta trova il riscatto dell’altro, per l’altro e nell’altro.

Il compagno di una generazione è un compagno di scrittura che sceglie una strada altra. Anche qui Merola ci parla di malattia mentale con grande dignità. Il compagno che poetizza è un uomo che pare consapevole dei suoi tarli e che prende posizione rispetto alla realtà, non fa scegliere ad essa il suo posto nel mondo. Un compagno consapevole del potere della parola e della scrittura e che ci mette in guardia dal pericolo al quale andiamo incontro se non parliamo, se non raccontiamo la complessità: “Ci hai detto ancora:/ possiamo tornare a essere/ scimmie: a forza di ridere perderemo le parole”. Un compagno altro che non sceglie una strada facile, nemmeno in poesia: “Lezione di scrittura: con gli enjambements è facile/ fare poesia. Non ci credi?”. Un compagno che è altro, ma che è Merola e anche la poesia stessa, che può farci identificare e portarci a capire l’altro: “Eppure io/ sono uguale a te, ma sono/ Antonio. Anche questa poesia si farà/ chiamare Antonio: Antonio: Antonio// se puoi richiamami su questa poesia”.

C’era una volta la città delle stelle chiude il libro ed è una favola in versi. Un uomo e una stella decidono di rinascere condividendo un corpo e avanzano con un progetto in mente, quello di costruire una città di luce. “Mi hai chiesto: raccontami di te, anche se ora siamo noi”. Una favola che ci racconta l’altro, attraverso le sue paure, i suoi mostri, che viene aiutato e che aiuta nella convivenza. Condividere un solo corpo per affrontare le difficoltà reciproche. “Non ho mai saputo come reagire/ alla notte: ma ora io sono te, ma ora tu sei me”.

allora ho acceso la luce è un libro compatto, maturo in una lingua sapiente e curata. Un libro che ha saputo aspettare il suo tempo e che in quell’attesa ha acquisito forza. Un libro che inizia con uno spaccato biografico e poi si apre all’esperienza degli altri, ma anche all’immaginazione di un sé bambino, all’immaginifico delle visioni di chi soffre, fino ad approdare all’immaginazione di una favola. Merola testimonia con la sua poesia che ogni strada è percorribile, che ci può essere apertura anche partendo da uno spaccato angusto, che anche se la nostra vita ci sta stretta, alle volte stare “stretti, stretti” forse può darci una nuova lettura del mondo. 

                                                                                                                                              Elisa Longo

  

 

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Da allora ho acceso la luce di Antonio Merola (Taut 2023)

 

 


 
Che cosa faremo quando finiranno i soldi
se da qualche parte ci aspetta un ponte
o forse una madre a indovinare la forza
per cercare ancora una parte nel branco: ma fare la spesa
ogni giorno era la prima soluzione contro l’assurdo
come accettare di avere scoperto il mostro
sotto il letto a sorridere nero come una parte della famiglia.
Ci eravamo lasciati alle spalle una mancanza
tra le stanze vuote: ricordo ancora la povertà della casa
quando non avevamo ancora la corrente, ogni bolletta
costava una madre o una schiena e minorava l’esistenza
come matricolare la vita giorno per giorno
o subire la tragica necessità del cibo:
avevamo così poca fame
che cercavamo da mangiare nella spazzatura.

 

 

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Oggi sei diventato una rosa:
il becchino mi ha detto che sei cresciuta
sopra la tomba. Pareva contento,
anche se a essere sincero credo che mi avesse scambiato
per uno dei tuoi figli o magari per il fantasma
che non ti ha mai coinciso, prima che fossi stato tu
a cercarlo. Ma io neppure ti conosco: Antonio Merola
(1896 – 1940). Tu non sei esistito nemmeno nelle carte
dell'archivio anagrafico statale. Così ti ho colta,
per lasciarti sfogliare in un vaso una volta per tutte
e in pace. Raccontami: che cosa si prova ad appassire?
 
Odori.

 

 

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C’era ancora la paura del ritorno:
chiedevamo l’unicità a qualcosa che non poteva ripetersi
una volta sola come tremare gli agguati degli uomini,
piangere l’inverno. Ci avrebbero di nuovo tagliato
la corrente, ci avrebbero di nuovo portato via
la mobilia della casa, finché non saremo piegati alle cose
gettate: allora facevamo la doccia fredda
fino a tracimare il gelo. Non ho mai saputo
meglio la fine: vorrei pagare il mese con le parole,
mangiare la carta – invece ho una fame vera
di trascrivere l’arcobaleno in bianco e nero,
alterare il diluvio: voglio alberare il cielo di caducifoglie.
 

  

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Gli amici lo sanno: ogni consiglio di uno scrittore si paga
una birra ghiacciata. Così si dondolano dai bordi delle righe
chiocciando nella loro sicumera animale una confessione
biologica: quanti uomini migliori di noi
hanno fallito, quanti peggiori hanno vinto.
Ma io sono uno che raccoglie le foglie,
le tinge, le riattacca agli alberi.

 

 

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Hai cominciato di nuovo a scappare ai margini
di un mondo infinito: ora ringrazi la mancanza
di una terra nuova: il pianeta non basta
per seppellirci tutti. Allora hai distrutto
delle foglie per aggiungere altre rovine
alla catastrofe: sostieni che la bellezza sia di proprietà
esclusiva degli alberi scampati alla carta:
non hai mai creduto alla corrispondenza taciuta
tra la vita e il libro così sei rimasta in piedi
in una metro: nessuno vuole cedere il proprio posto.