Su e da "ANCHE QUANDO E' MALORA" di Carlo Giacobbi. Recensione e scelta dei testi a cura di Gabriele Marturano


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Carlo Giacobbi è nato a Rieti nel 1974. Nella città natale risiede e lavora.
Ha manifestato, sin dalla prima giovinezza, interesse per la poesia, la letteratura, il teatro, la musica ed il canto.
Ha vinto numerosi concorsi nazionali ed internazionali ed è risultato finalista in occasione dell’edizione 2021 del Premio “Lorenzo Montano”.
È nelle redazioni di Arcipelago itaca e Versante Ripido. Collabora con Macabor editore.
Intensa è anche la sua attività di critico che si affianca a quella di organizzatore di laboratori di scrittura poetica.
Ha recentemente pubblicato Abitare il transito (Arcipelago itaca) e Vicende e chiarimenti (puntoacapo).

 

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Anche quando è malora è un titolo che non fa sconti e introduce il lettore, senza preamboli e senza retorica, nello stomaco affamato dei personaggi che popolano queste pagine, nella loro routine che è sempre «malora».
Carlo Giacobbi corrobora la lirica delle precedenti raccolte con la vis narrativa, elaborando una diegesi per frammenti e per illuminazioni, talora intrisa di poeticità che richiama la Beat Generation («strozzare fiamme nel groppo fino al delirio / fino al visibilio del vedere / le fioriture dei peschi nel gelo» e ancora «esplodimi la mente d’un casino di stelle»); talora diretta, asciutta, che trafigge con lo stiletto del realismo («faccia qualcosa, cristo / l’ho sentito dire ad un altro lì fuori»).
La voce del poeta appare sporadicamente tra i versi, che sono tutti tesi a restituire la violenza della quotidianità, fatta di menti ammattite non si sa nemmeno perché («qualcuno dice i libri / o chissà se il naufragio d’un amore // servirebbe saperlo?»), di persone che scelgono di silenziare le paure drogandosi, e in generale autodistruggendosi, ma anche di madri disposte ad esaudire i bisogni fisiologici di un figlio disabile che è ripudiato anche da chi ha fatto del sesso una professione («gli si offre lei / - pietà che non sa cos’altro fare - / nell’audacia oscena e santa di sgranargli la zip»); e ancora di un prete che vuole sperimentare l'erotismo («svoltare per vicoli / quando del giorno crolla l’abito, il colletto // ingordigia d’afrori proibiti / da prima volta») e di ragazzi con lo «skate in spalla / le tennent’s sgargarozzate» che urlano con lo spray sui muri le loro verità.
Ecco, queste poesie consegnano una verità che somiglia molto alla solitudine che a sua volta è diventata coatta e dunque isolamento, come accade all’anziano vedovo che cerca nel silenzio la moglie («portare fiori al marmo / bisbigliarle – come andiamo oggi –»).
 
L'opera àncora immediatamente il lettore nel «bar delle sei», dandogli il privilegio di essere uno spettatore invisibile dentro un'istituzione di socialità ricca di figure umane disparate che si ritrovano a condividere il rito del caffè prima di vivere l'ennesima giornata («qualcuno apre gli occhi, si chiede – anche oggi? –»). Ed è qui che il lettore può immaginare il poeta prendere appunti ascoltando le loro vite, raccontate perlopiù a orecchie distratte, abituate a non fare attenzione al flatus vocis che si accumula già dalle prime ore del giorno.
Ma lo spazio sociale d’apertura è solo l’epicentro, il luogo di raduno di personaggi che si trovano ovunque e che, al di fuori, camminano nel «silenzio artico del giorno / nelle steppe metropolitane».
Il libro affronta di petto la contemporaneità, scrivendo ad esempio di chi «per tigna», visto che si è «fatta pure d’acquaragia», è no-vax, per il puro gusto di dirigere la propria vita nel verso opposto a quello della politica che indirizza il vivere condiviso. E c’è spazio anche per il tema dei temi, ovvero l’amore, vissuto con veemenza, come una passione che si pretende faccia male, che renda «scemo / come un pugile suonato / ché cazzo lo voglio sentire sul grugno / il jab del tuo sguardo // [...] assaggiami dal vivo». Sono tutte poesie che tengono sul filo del rasoio il malessere che ognuno di noi prova, o ha provato, almeno una volta nella vita; e che per qualcuno è diventato invece l’intera esistenza.

La morale cristiana, che vede la sofferenza come giusta e come mezzo di espiazione della colpa di essere i figli imperfetti della bontà divina, viene costantemente messa sul banco degli imputati; Dio in persona viene chiamato dal poeta a guardare cosa succede quaggiù, che cosa si agita nei giorni da scontare sulla Terra. A Dio si chiede la pietà di uno sguardo, di un segno («non dico tanto // la piuma di un’ala d’angelo, che so / il riverbero d’un lumino lontano // qualcosa dai, dallo a vedere // [...] è questo che il mondo chiede, null’altro»), di qualcosa che dia un senso alla disperazione: «ehi Dio, vecchio lupo // figli tuoi più loro // [...] erano ragazzini, chiedevano niente // dipingevano alberi di natale sui vetri dell’asilo / infilavano letterine sotto il piatto del papà // ehi Dio, su, una voce // e pietà, pietà pietà».
 
Infine, possiamo affermare che quello di Carlo Giacobbi è un libro umile, nel senso etimologico di humilis, ovvero “vicino alla terra”, terrestre e terreno, che non teme di sporcarsi e per questo si fa umanissimo e desideroso di filmare la realtà: «porco il buio della malabestia, ragazzi // l’abbiamo scampata, siamo qui / la raccontiamo».

                                                                                                                            Gabriele Marturano


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Da ANCHE QUANDO E' MALORA (Arcipelago itaca, marzo 2023)* 
 

 

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notte, luci accese
al bar delle sei
 
             il doppio in un fiato
 
scartoccia i soldi, gomiti sul bancone
un sisma nelle gambe
nella voce
 
             vuole morire così
             lo sfascio nella mente, il buio negli occhi
             chissà quale deriva

 

 

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no, non volerne sapere
meglio bere
 
imbambocciarsi per non essere dove si è
quando essere non è più cosa
o è troppo
 
strozzare fiamme nel groppo fino al delirio
fino al visibilio del vedere
             le fioriture dei peschi nel gelo
 
l’involarsi di rondini luminose dalle tasche
che vanno a cantare
sul luccichio allucinato dei rami ghiacciati
 
brindare in culo alla pena di non essere amati
o cercare di farlo

 

 

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passeri sui tralicci
             il bus porta a spasso il conducente
 
nelle camere c’è odore di dormito
 
qualcuno apre gli occhi, si chiede – anche oggi?
uno sbuffo mentre scosta la tenda grattandosi il capo
 
il mondo ancòra là
                                       – si, anche oggi

 

 

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gli si offre lei
– pietà che non sa cos’altro fare –
nell’audacia oscena e santa di sgranargli la zip
 
             non è amore l’amore
             se non sa lo scandalo di sconfinarsi tutto
 
la ferma, la scansa, dice no, dice
 
             faccio solo, mamma
 
 

 

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ed io, che più di te ho raccolto
nelle pozze degli occhi
l’acquafango degli amori tempesta
tifo per te, ragazzo
 
non lo saprai se glielo chiedi mai
 
                         tanto qui mendichiamo tutti
 
giòcati faccia
budella fegato cuore
 
             l’amore o ti fa scemo
             o non è amore