Su e da "DISTANZE" di Antonio Malagrida. Con una nota critica di Lorenzo Fava
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Antonio Malagrida è nato a Macerata nel 1961.
Laureato in Lettere e Filosofia, docente di Lettere, ha pubblicato: Sprazzi e impressioni (Est 1995); A chi è ancora vivo (Amadeus 1997); Oltre (L’albatro 2002); La tenda dello zingaro (libro + cd, Pequod 2007); Fuoristagione (Raffaelli 2016); La sabbia e la neve (Grafiche Fioroni 2019); La scia (libro d’arte, con tre opere originali di Rebecca Quintavalle, Associazione Culturale “Italic - Mons. Abbatis” 2021).
La sua opera in versi, sia edita che inedita, ha ottenuto numerosi riconoscimenti in premi di rilevanza nazionale. È presente in diverse ed importanti antologie, sue recensioni e suoi testi sono stati pubblicati sui principali lit-blog italiani e su varie riviste.
Nel settembre del 2024 è uscito, per Arcipelago itaca, Distanze.
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“Mantengo le distanze, finché posso, amica mia. / Un modo come un altro per sentirmi vivo”. Con questa frase si chiude la breve prosa iniziale di Distanze di Antonio Malagrida. Il titolo non indica solo distanze geografiche; i versi raccontano, forse ancor prima, una distanza temporale; ci si rivolge ad un dio laico come ci si rivolge ad amici, donne, situazioni ormai collocate nel tempo trascorso: “pregherei dovesse tornare al principio / di farci più attenti alle cose / ed in generale un poco più fortunati”. La scrittura di Malagrida parte dagli oggetti, dalle cose, “leggo da una vita l’alfabeto degli oggetti”, da dati concreti “unghie curate prive di smalto”, “ciglia gonfie”, “enormi calli duri sulle mani” per arrivare in maniera induttiva ad un respiro di comunità tra vivi e morti, di persone, appunto, distanti: “né voci né odori / non c’è nessuno / dove sono i vivi / e i morti / dove sono / io”. Un dio mai descritto viene evocato come si evoca una speranza, un dato sensibile che dia conto dell’esistenza: “nascondersi qui, adesso / in nessun luogo / dio ti prego, esisti”. L’ultimo testo della prima sezione, titolata Due note, reca traccia di questa comunanza, un ininterrotto dialogo con gli scomparsi “abbiamo cose da fare / scusate se ancora una volta / improvvisamente siamo dovuti partire / abbiate fede ci rivedremo promesso ci rivedremo”, dice l’ultimo testo dando voce a chi è scomparso. Il libro procede per brevi lacerti in versi, con qualche poesia lunga, cantata, dove la punteggiatura pressoché assente lascia che la sintassi si coordini con l’andare a capo, facendo sì che ad assuonare tra loro – è questo, in poesia il motivo cardine della forma – siano le parole che precedono i capoversi o, talvolta, le parole immediatamente prima della cesura: “so bene del cielo grigio / […] scombina i volti / chiude a vortice due ricordi / indifferente alle preghiere / ai capelli persi, alle falene […]”. La questione centrale della poetica dell’autore sembra essere una sorta di fede nella vita che trascende la distanza del titolo. Non c’è rassegnazione in queste pagine; alla malinconia dettata dal tempo irrimediabilmente passato fa da contrappunto una fede nell’esistenza che, quando espressa astraendo dall’oggetto-simbolo l’essenza del ricordo, crea passaggi memorabili: “[…] dei sette cannoli / che mangiammo a colazione / troverò magari due tre sillabe / chissà in quale sacca di memoria / o piega remota del destino”. D’altronde, è proprio la salvaguardia della memoria l’occasione della scrittura. La distanza, o meglio la non-coincidenza dell’io che scrive con la natura “se solo io non fossi quello che vedi / ma odore di terra nuvola e tempesta / se anche ti ritrovassi crinale, lampo”, “mi chiedo […] / se almeno qui tra queste foglie / un battito lieve mi somiglia” genera la frizione, lo scarto che trascende la condizione umana: “fa come fosse voce il mio delirio”, “non ricordo esattamente di cosa / parlavamo quel giorno o perché / certo fu l’ultimo prima della cenere”. Peraltro, più il distacco tra la contingenza mondana e l’essenza del ricordo si fa ampio, più è felice l’esito espressivo. Tanto più è prosaico il primo riferimento del testo, tanto più verticale la conclusione a cui Malagrida arriva: “Non bastano simboli o tastiere / […] a cosa serve la pila accesa / la mail certificata / […] figurati il corpo // figurati domani”. La tensione lirica ed emotiva di tutte le pagine si localizza nell’intenzione di non cedere all’annichilamento della realtà; recita così la prima poesia della sezione Trasparenze: “muovi le conchiglie / piuma un po’ smarrita / parli alle formiche tra la sabbia // quando poi t’accorgi / una specie d’allegria mi risolleva / e come primavera, t’avvicini”. Qui, pur mantenendo l’aderenza a oggetti e situazioni della “memoria” la poesia tocca l’altro polo della lirica, l’amore. Il tu a questo punto diventa una persona presente, con cui si condividono ricordi e situazioni: “ragazza dolce mi chiedo ancora / con quale fiato hai vinto le tue battaglie atroci / cosa immagini quando sorridi controvento / tuttora non mi spiego da dove viene / la tua luce, cosa ti spinge a me / professore mi chiami, ma sono io che imparo”; si parla al presente, ma anche qui la voce è malinconica, nostalgica, dettata da un’impossibilità che aleggia da verso a verso, e che viene dichiarata esplicitamente in uno dei punti nevralgici del volume: “ma ho perso i modi sulla strada / io che ti aspetto ogni mattina / io che so dire amore solo sulla carta”. La sezione Ritorni sia apre con una dedica ad un amico scomparso dove la prassi della realtà, indicata dall’“ufficio reclami” o la “mail certificata” si mescola improvvisamente con l’aldilà in una combinazione di riferimenti che, pur nella distanza dal mondo dei vivi – ed è questo il grande comune denominatore di tutto il libro –, si fanno formule efficaci. La potenza di Malagrida infatti risiede nella grande capacità di trasmettere in parole, derivate dell’esperienza di vita, il grande dilemma della morte. La tecnica con cui si amalgamano lessici concreti, uno su tutti quello degli oggetti cari, con impennate liriche che però non cedono mai alla pura astrazione, ma restano ancorate a questo mondo grazie all’evocazione, sta nel fatto che il tema della morte viene trattato sì con levità, ma anche con gli strumenti umani, le categorie dei vivi. Rivolgendosi ad un tu ed evocando ricordi di calcio mondiale, le pagine 93 e 94 sono commoventi: la visone collettiva di Italia-Germania 4 a 3 dei mondiali del ‘70 è ancora una volta il dispositivo che accende la visione della lirica sublimando il dramma con una grazia rara e preziosa. La lingua in questo libro si fa talmente tanto prossima alle cose – senza mai cadere nel nudo piano biografico dell’autore – che quelle parole si staccano dalla cosa raccontata e parlano a chiunque. L’io diviene in queste pagine un osservatore che non frappone la sua voce a quella a cui si rivolge, ma si fa veramente una quarta persona singolare, capace di far significare i lemmi ad un grado altissimo, non indicando solo i referenti (“il sandalo incrociato marrone / quello che ti usciva dal piede / un attimo prima colpissi il pallone / è ancora conservato nella stanza di sopra / a sinistra, in fondo al corridoio”), bensì racchiudendo tutta l’esperienza di un’assenza che, pur nel dolore del tempo trascorso – altra grande tematica della lirica classica – non smette di credere al ricordo ed al dialogo con i morti come solo antidoto possibile al lutto.
Lorenzo Fava
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so bene del cielo grigio
che non lascia spazi o fenditure
conosco pure il vento
che nella burrasca d’ottobre
solleva gli ultimi ombrelloni
scombina i volti
chiude a vortice due ricordi
indifferente alle preghiere
ai capelli persi, alle falene
dietro quale robusto chiavistello
sopra quali tegole cammineranno
su quale croce sotto quale antenna
cercheranno riparo gli amici di allora
e tu padre carissimo e lontano
avrà qualcuno compensato le pene
la sofferenza muta degli anni tristi?
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di quei dolci canditi rossi
gialli e verdi, dei sette cannoli
che mangiammo a colazione
troverò magari due tre sillabe
chissà in quale sacca di memoria
o piega remota del destino
delle canzoni sulla strada
di entusiasmi e fantasie
della forza nelle gambe
della camicia tre bottoni sotto il gilet
resta una foto conservata bianco e nero
una Sony registrata a nastro
un pugno di parole quasi a caso
dentro una poesia
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mi svegliò la mano la tua voce
a mezzanotte silenziosa, nella brezza
calda di giugno scendemmo
in cortile tra profumi sconosciuti
a tirare sul vecchio portoncino
ad esultare ogni volta come fosse gol
poco dopo andammo davanti la tv
giocavano i campioni del mondiale
finì 4-3 la gloriosa semifinale
la Germania di Muller e Beckenbauer capì
che l’Italia non era solo spaghetti e mandolino
ma vorrei farti presente adesso
casomai lo cercassi nella scarpiera
che il sandalo incrociato marrone
quello che ti usciva dal piede
un attimo prima colpissi il pallone
è ancora conservato nella stanza di sopra
a sinistra, in fondo al corridoio
lo indosso come fosse lo scarpino di Rivera
certe sere che mi sento solo e chiamo palla
sul destro, per beffare all’ultimo minuto
chi dice che sei morto, che non hai più fiato
poi mi siedo in giardino e fino al mattino
spero di vederti arrivare dalla strada
magari furtivo, in fuga da chissà dove
che torni indietro a ringraziare
quasi sapessi che ho bisogno di un abbraccio
di un tempo nuovo, magico, supplementare