Su e da "EX MADRE" di Francesca Del Moro. Recensione di Maristella Diotaiuti

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Francesca Del Moro è nata a Livorno nel 1971 e vive a Bologna. Ha pubblicato i libri di poesia Fuori Tempo (Giraldi, 2005), Non a sua immagine (Giraldi, 2007), Quella che resta (Giraldi, 2008), Gabbiani Ipotetici (Cicorivolta, 2013), Le conseguenze della musica (Cicorivolta, 2014), Gli obbedienti (Cicorivolta, 2016), Una piccolissima morte (edizionifolli, 2017, ripubblicato nel 2018 come ebook nella collana Versante Ripido / LaRecherche) e La statura della palma. Canti di martiri antiche (Cofine, 2019). Ha curato e tradotto numerosi volumi di saggistica e narrativa ed è autrice di una traduzione isometrica delle Fleurs du Mal di Charles Baudelaire, pubblicata da Le Cáriti nel 2010. Nel novembre del 2020 è uscita la sua traduzione dei Derniers Vers di Jules Laforgue, nella collana La costante di Fidia curata da Sonia Caporossi per i tipi di Marco Saya. Fa parte del collettivo Arts Factory e del Club Pavese+Tenco insieme a Federica Gonnelli e alla fondatrice Adriana M. Soldini, con le quali ha contribuito, come traduttrice e performer, ai cataloghi, alle opere di videoarte e alle performance di presentazione delle mostre collettive di arte contemporanea Scorporo (2011), Into the Darkness (2012) e Look at Me! (2013), nonché allo spettacolo Rose gialle in una coppa nera dedicato a Cesare Pavese e Luigi Tenco (2018). Propone performance di musica e poesia insieme al collettivo Memorie dal SottoSuono. Nel 2013 ha pubblicato la biografia della rock band Placebo La rosa e la corda. Placebo 20 Years, edita da Sound and Vision. Dal 2007 organizza eventi in collaborazione con varie realtà bolognesi e fa parte del comitato organizzativo del festival multidisciplinare Bologna in Lettere.

 

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Le parole per dirlo di Maristella Diotaiuti

 

Cosa si può scrivere quando ti muore un figlio? Quali parole e quali versi sono possibili per raccontare cosa succede a chi resta a convivere con questa voragine di dolore?
Le trova Francesca Del Moro le parole poetiche e le scrive in un libro, Ex madre edito da Arcipelago Itaca, che già nel titolo dice la perdita e l’assenza. Non è un libro come tanti, questo di Del Moro, è un libro di poesie legato a un evento doloroso, definitivo, lacerante, che toglie il respiro e mina le fondamenta di chi è investito da questa tragedia.
Come stare, noi, al cospetto di un dolore così immenso? Troppo potente, insostenibile, quello che c’è dentro le poesie di Francesca Del Moro, che ci fa sentire del tutto inadeguati.
Occorre, forse, leggere e rileggere le sue poesie per distanziarne la materia incandescente, raffreddarla, riportarla alla dimensione di opera letteraria, e così consentirci una dovuta compostezza. Eppure l’aiuto arriva dalla stessa Francesca, perché nelle sue poesie c’è una tale grazia, una tale forza e consapevolezza, e soprattutto un amore infinito, che ci sentiamo come accarezzati, come presi per mano. Così se noi possiamo solo metterci in ascolto di Francesca, in accudimento, in accoglienza, lei fa lo stesso con noi. Nessun urlo contro di noi, né quella domanda, che pure sarebbe stata legittima “perché a me e non a voi?”, che ci avrebbe inevitabilmente collocati in contrapposizione, dalla parte degli altri, dei fortunati a cui non è toccato in sorte un evento così lacerante.
Francesca, invece, ci fa entrare nel suo lutto, nella sua tragica vicenda privata senza accuse, ma coinvolgendoci, chiamandoci a un con-dolore, a un pianto condiviso, a una riscoperta umanità.
Ci ricorda che condizione comune a tutte le creature viventi è la finitezza, la fragilità, l’impotenza di fronte ai colpi ciechi, imprevedibili, della sorte o del caso o del destino, comunque lo vogliamo chiamare.
La società contemporanea sembra aver cancellato il pensiero e la consapevolezza della morte, ha eliminato ogni senso di finitezza, generando e alimentando l'illusione di uomo eterno che può tutto e a nulla e nessuno mai renderà conto. La censura della morte nella vita dell’uomo occidentale contemporaneo ha, se non eliminato, di certo evitato il lessico associato alla morte e al dolore, generando una profonda afasia dinanzi a chi soffre e a chi muore, e innanzitutto dinanzi a noi stessi quando siamo chiamati a fare i conti con i nostri limiti e le nostre perdite.
Francesca, invece, guarda frontalmente il suo dolore e riporta tutto all’umana misura, attraverso la poesia, una poesia autentica, coraggiosa, si racconta non nascondendo nulla della sua fragilità, del suo smarrirsi, del suo tentativo, quotidiano, di ricomporre i pezzi del suo mondo andato in frantumi.
Anche nella consapevolezza che non è semplice o affrontabile per una madre trovare parole che in qualche modo raccontino della morte di un figlio e di cosa succede a chi resta a convivere con questa voragine di dolore. Perché non c'è 
niente di più sbagliato della perdita di un figlio.
Cos’è, allora, Ex madre? Memoriale? Diario? Raccolta di frammenti? Canzoniere del lutto? Di certo è un canto un canto struggente e intenso. È sicuramente una discesa agli inferi, una catabasi, un esercizio del lutto, un oscillare tra la pulsione ad arrendersi al vuoto o riempirlo di ciò che rimane, fosse solo la memoria. O, meglio, il ricordare, che non è esercizio meccanico, reazione chimico-fisica, ma è, come dice l’etimo latino recordari, con re- indietro e cordare da cor cordis, cioè cuore, quindi richiamare in cuore, richiamare nel presente del cuore e del sentimento qualcosa che non è più qui o non è più adesso. Non nella sua forma originale. E che però, per il solo tornare in cuore, rivive.
È, quindi, un ripercorrere, in un tempo non lineare né logico, dopo la morte del figlio, il susseguirsi delle ore, dei giorni successivi, dei mesi. Ogni momento è per Francesca Del Moro uno squarcio, la possibilità di ricordare frammenti di vita con il figlio, fotografie, pensieri, l’ultimo sms ricevuto da lui, il sorriso, un certo modo di parlare, e ora il compito di mettere via le sue cose, di pulire le lettere del suo nome sulla lastra di marmo, di chiedere al gatto e alle mura di casa cosa hanno sentito.
Ma se gli squarci e i ricordi che lei riesce a mettere su carta fossero fini a loro stessi, ovvero ricordi e basta, questo volume non avrebbe lo straordinario valore letterario che invece ha, perché Francesca li usa per analizzare lucidamente tutto quello che il lutto porta con sé. Per testimoniare, dal di dentro, lo strazio della perdita e dell’assenza, per pronunciare le parole che altri, dentro lo stesso dolore, non riescono a dire.
Per questo il ricordo diventa tensione verso la parola, nel tentativo di dare forma all’informe, di dire l’indicibile, di ridare senso a quello che non ha più senso. Per risemantizzare il mondo, rinominare le cose, gli oggetti, le persone. Dopo un evento così traumatico ogni cosa non ha più un nome, o non ha più quello di prima, non si possono usare più le parole che avevano messo al mondo quel mondo, perché non esiste più quel mondo.
Anche la parola madre, preceduta da quella particella privativa ex che la svuota di significato, dichiara la perdita di identità e ci dice l’incontro con la perdita, l’esperienza dell’assenza, l’evidenza della mancanza dell’altro.
Ma quando si smette di essere madre se si può addirittura mettere al mondo la morte del figlio, far diventare l’urna ventre in cui si realizza una nuova gestazione?
Ho stretto l’urna contro il ventre, / pesava pressappoco come allora. / Un figlio lo contieni sempre / e ogni minuto io contengo, / ogni minuto sento dentro / mio figlio che muore, / mio figlio che decide di morire.
Così testimonia la poesia, straziante, che apre la raccolta.
In questo dolente percorso poetico, Francesca Del Moro rinomina il mondo, e cerca di addomesticare, di domare il caos che si è creato all’improvviso, in un giorno di luglio. Compito che assegna alla poesia. Perché Francesca è poeta, e perché la poesia conosce bene il caos. Perché la poesia è sempre in una posizione liminale, abita sempre un altrove, sempre mediatrice tra due sponde, due dimensioni. Perché la poesia nasce da una ferita, da un taglio, è essa stessa taglio 
e ferita. E la poesia non deve guarire la ferita. La poesia è pharmakon, veleno e cura insieme.
Lo scrive Francesca, in versi potenti: “Mi dicono il tempo / calmerà il dolore / ma io non voglio / perché il tempo che scorre / lo allontana, lo trattengono / questi morsi in tutto il corpo / questi morsi sono ancora lui.
Allora la poesia per Francesca è poesia di cura, ma in una accezione diversa da quella comunemente condivisa, non tentativo di eludere il dolore, di cicatrizzare in fretta la ferita perché non sanguini più, ma, al contrario, avendo cura di tenerla sempre aperta, disinfettandola perché non si infetti ma lasciandola visibile, perché lì la carne è viva, ipersensibile, il punto in cui si sente di più.
Solo accettando la ferita, e il dolore della ferita, il dolore stesso può continuare a essere legame, farsi processo di crescita e perpetuare l’amore. Il dolore, il dolore dell’assenza, può diventare, così, narrazione, poesia.
Francesca Del Moro ha saputo interrogare le ferite, le faglie, i tagli profondi, e li ha riempiti con una materia preziosissima, una coraggiosa e autentica e potente parola poetica.
Come fanno i giapponesi con la tecnica del kintsugi che ripara gli oggetti rotti saldando i frammenti con lacche e metalli preziosi come l’oro, cosicché le crepe non solo non sono nascoste, ma sono esibite, dando nuova vita e raccontando una nuova storia.
Nuova cura, nuova forma d’amore, dove la parola amore recupera una ulteriore e improbabile etimologia, ma assolutamente interessante, secondo la quale amore deriverebbe dal latino a-mors, cioè senza morte, a sottolineare l’intensità senza fine, l’infinità di questo sentimento.
Poesia fittamente intessuta di immagini che tormentano, che stringono il cuore, talmente nitide da divenire insostenibili, ma che sa aprirsi ad aree di dolcezze, di tenerezze, di ritrovate carezze, a lampi di luce. Mi viene in mente quello che accade a una minuscola creatura, il caenorhabditis elegans. Al momento della sua morte un’onda di luce fluorescente azzurra si sprigiona dalle cellule e si propaga nell’intero organismo, di cellula in cellula. Una stessa luce percorre le poesie di Francesca, perché dal nero di un lutto si può trovare il colore di un nuovo amore.
E così, se prima di aprire il libro Ex madre ci siamo chiesti come si può scrivere di un dolore così immenso, giungendo alla fine, all’ultima poesia, dopo averlo attraversato tutto, ci rispondiamo che è possibile, perché Francesca Del Moro l’ha reso possibile. Con sincerità, con onestà, con tono amichevole, confidenziale, ci ha reso possibile entrare nel suo dolore.
I versi di Francesca Del Moro sono bellissimi, immediati, apparentemente semplici, ma non privi di maestria tecnica, che si vede e si sente tutta. Semplici, apparentemente, perché è la grammatica del dolore e della sincerità del dolore che non ha bisogno di strutture complesse.
Ma è poesia altissima, superba, potentissima nella sua nudità. Poesia che emoziona, che scuote dalle fondamenta, ma senza rabbia, senza urla, con elegante compostezza. E attraverso questa poesia Francesca si dà a noi scorticata, senza pelle, trasformando il suo dolore in dono, dono inestimabile.

 

 

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Da EX MADRE

 

È arrivato anticipando
d’un soffio la primavera.
Da allora mi ha fatto solo fiorire.
Mi ha seccato l’eterno sole
del luglio in cui mi ha lasciato.
Come lui splendeva troppo
ai miei occhi, li accecava.
E non ho visto la nera, lunga
notte in cui si incamminava. 

 

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L’estremo gesto, il gesto insano.
Il rapporto di polizia si concede
qualche cliché letterario.
Ma io ricordo bene
il viso buono di chi quel giorno
mi ha fermato sulla strada
e gli occhi lustri di chi ci ha ridato
i suoi effetti personali
mentre i nostri si riempivano di lacrime
e il suo ripetere commosso:
non è colpa vostra, mi raccomando,
ricordate, non è colpa vostra.

 

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Se fossi certa
di ritrovarlo al di là
di questo ruvido grigio
dove esercito l’occhio
a cadere a precipizio
tra i passi consueti
sceglierei un piano alto
e gli correrei incontro
con la stessa felicità
con cui lo riabbracciavo
alla fine di ogni giorno.

 

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Raccogliamo le foto,
dividiamo i vestiti,
riempiamo dieci
borse da donare.
Ci vuole tempo
per chiudere una vita,
trasformarla in ricordo.
Sopra di noi, la luna
ha quasi ricomposto
il suo occhio sgranato
di quel giorno.

 

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Non è colpa tua,
si affrettano a dire
la polizia, i medici,
gli amici, i familiari,
rispondono alla domanda
che non fai, la generosa
negazione cade,
solo l’accusa rimane,
solo l’accusa,
feroce a risuonare.