Su e da "GLI STRUMENTI UMANI" di Vittorio Sereni. Con contributi critici di Franco Fortini
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Da ‘Il libro di Sereni’
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Gli strumenti umani è un libro che può anche essere letto come una raffigurazione della storia italiana — in una certa misura europea — degli ultimi quindici anni. Non sol tanto per le indicazioni di scena: avvento della Repubblica, ricostruzione, la nuova industria, il passaggio del benessere, la guerra d’Algeria, la Germania del miracolo. Ma per vere e proprie «intermittenze storiche», identificazione di atmosfere, di attimi particolari che diventano sovraccarichi di significato: l’agonia della speranza e della gioventù che la ricostruzione implicava e accompagnava («Nel sonno»); quella della piccola fabbrica accanto alla grande (con l’esattissima intuizione di un potenziale di lotta sopravvissuto solo in situazioni di arretrata tecnologia, e con la scoperta che solo la grande industria libera dalla illusione intellettuale d’una parte migliore e di una peggiore da salvare o da spendere); gli anni della accumulazione e della accondiscendenza sentiti nello spegnersi di giornate sportive («a brani una futile passione»), nelle vociferazioni, nella stessa sospensione domenicale dell’esistenza («La poesia è una passione»); l’efferatezza del neocapitalismo europeo colta (come, d’altronde, dalla prosa dell’Opzione) nell’atto in cui ostenta una dimenticanza, per noi ovvia, di quel che per l’autore è relativamente recente e faticoso acquisto.
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Non so se sia esatto parlare di atonalismo, per l’ultima parte di questo libro. (Gli Strumenti stanno al Diario come de Staél a Morandi…). Per quanto — come ho detto —la natura vibratile di questi versi si origini da dislivelli multipli, e da un sistema di intoppi e arresti accuratamente predisposto, resta indiscutibile che la gamma linguistica ed espressiva rifugge da ogni dilatazione, da ogni eccesso e gioca invece sugli scarti minimi, sul «risparmio» classico. Nel Sereni del Diario e qui ancora in molte delle più concluse poesie della prima metà del libro, l’atteggiamento è quello comune a molto nostro Novecento. Ma mentre quello mirava, per tale via, al «dimesso-sublime», Sereni — non foss’altro, per la sua devozione, o complicità, verso Apollinaire; e per la sua, decisiva, esperienza su Williams (insieme a quella, ma a contrario, sul «sublime» Char…) — mantiene, sottili e precisi, i suoi intervalli.
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Quel che nel Diario era, com’ebbi a scrivere, oscillazione fra purezza e impurità narrativa e quindi fra omogeneità e rischio di eterogeneità, qui ha segnato la prevalenza del «parlato» e del «narrato» e quindi dei dislivelli linguistici. Ma — e vorrei richiamare l’attenzione su questo punto, che mi pare abbastanza importante — l’impasto che risulta è non soltanto nuovo rispetto alla maggior parte della poesia italiana di oggi ma è una prova ulteriore di quella capacità oggettiva di dire una verità sulla verità storico-sociale del nostro tempo. Infatti, se esamini un campione di questo linguaggio, puoi trovarvi pressoché le medesime componenti del Montale del dopoguerra; ma una disposizione diversa origina molecole affatto diverse e che significano un altro mondo. Dagli schisti lessicali di Montale si proietta un fantasma parlante che è, nella sostanza, un intellettuale italiano d’una cultura difensiva, ironica, sprezzante e malsicura, che si separa dal volgo verso il convivio di alte e mature borghesie europee; in Sereni, con nessuna o rare concessioni alla immediatezza (o agli echi dialettali; solo quel suo «roba», mi pare, è un intenzionale lombardismo…) hai piuttosto il linguaggio medioborghese e medioeuropeo che su di un fondo umanistico, da cui emergono le frequenti criptocitazioni, integra non tanto o non soltanto elementi di un lessico d’altra provenienza (tecnico-scientifica) ma cadenze, esitazioni e pause tipiche di quel ceto o genere. Aziendale, è stato detto, proprio perché l’azienda della produttività neocapitalistica liquida ogni illusione di libertà extraziendale. Attraverso tale sottilissima imitazione delle intonazioni (se anche mi manca la possibilità di dimostrarlo, è qui certo l’origine della metrica del Sereni più recente) hai l’introduzione di un elemento teatrale, l’inserimento di una seconda o terza voce del dialogo… Più di una trentina di volte in questa cinquantina di composizioni tornano i «dice», i «diceva» e simili. Tecnicamente, le poesie di Apparizioni e incontri sono spesso dei mimi.
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Da Franco Fortini, Il libro di Sereni, “Quaderni piacentini”, V, n. 26, marzo 1966, pp. 63-74, poi in Saggi italiani, De Donato, Bari, 1974 e in Saggi italiani 1, Garzanti, Milano, 1987.
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DA GLI STRUMENTI UMANI
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Fissità
Da me a quell’ombra in bilico tra fiume e mare
solo una striscia di esistenza
in controluce dalla foce.
Quell’uomo.
Rammenda reti, ritinteggia uno scafo.
Cose che io non so fare. Nominarle appena.
Da me a lui nient’altro: una fissità.
Ogni eccedenza andata altrove. O spenta.
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Viaggio di andata e ritorno
Andrò a ritroso della nostra corsa
di poco fa
che tanto bella mai ti sorprese la luna.
Mi resta una città prossima al sonno
di prima primavera.
O fuoco che ora tu sei
dileguante, o ceneri confuse
di campagna che annotta e si sfa,
o strido che sgretola l’aria
e insieme divide il mio cuore.
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Ancora sulla strada di Zenna
Perché quelle piante turbate m’inteneriscono?
Forse perché ridicono che il verde si rinnova
a ogni primavera, ma non rifiorisce la gioia?
Ma non è questa volta un mio lamento
e non è primavera, è un’estate,
l’estate dei miei anni.
Sotto i miei occhi portata dalla corsa
la costa va formandosi immutata
da sempre e non la muta il mio rumore
né, più fondo, quel repentino vento che la turba
e alla prossima svolta, forse finirà.
E io potrò per ciò che muta disperarmi
portare attorno il capo bruciante di dolore.
Ma l’opaca trafila delle cose
che là dietro indovino: la carrucola nel pozzo,
la spola della teleferica nei boschi,
i minimi atti, i poveri
strumenti umani avvinti alla catena
della necessità, la lenza
buttata a vuoto nei secoli,
le scarse vite, che all’occhio di chi torna
e trova che nulla, nulla è veramente mutato
si ripetono identiche,
quelle agitate braccia che presto ricadranno,
quelle inutilmente fresche mani
che si tendono a me e il privilegio
del moto mi rinfacciano.
Dunque pietà per le turbate piante
evocate per poco nella spirale del vento
che presto da me arretreranno via via
salutando salutando.
Ed ecco già mutato il mio rumore
s’impunta un attimo e poi si sfrena
fuori da sonni enormi
e un altro paesaggio gira e passa.
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Anni dopo
La splendida la delirante pioggia s’è quietata,
con le rade ci bacia ultime stille.
Ritornati all’aperto
amore m’è accanto e amicizia.
E quello, che fino a poco fa quasi implorava,
dell’abbuiato portico brusio
romba alle spalle ora, rompe dal mio passato:
volti non mutati saranno, risaputi,
di vecchia aria in essi oggi rappresa.
Anche i nostri, fra quelli, di una volta?
Dunque ti prego non voltarti amore
e tu resta e difendici amicizia.
* * *
Vittorio Sereni è nato a Luino nel 1913. È vissuto a Milano, dove è scomparso nel 1983.
Richiamato alle armi nel 1941, fatto prigioniero nel 1943 in Sicilia, venne internato in Nord Africa (Algeria e Marocco) come prigioniero fino al luglio 1945. Ripreso l’insegnamento (1948-52) a Milano, venne poi assunto alla Pirelli, all’Ufficio stampa e propaganda, fino al 1958, passando successivamente alla direzione editoriale della casa editrice Mondadori. Le sue raccolte di versi: Frontiera (1941, ed. defininitiva 1966), Diario d’Algeria (1947, ed. accesciuta. 1966), Gli strumenti umani (1965), Stella variabile (1979, ed. definitiva 1981), Tutte le poesie (1986), Poesie (ed. critica a cura di D. Isella, 1995).
Critico (Letture preliminari, 1973) e traduttore (Il musicante di Saint-Merry, 1981), ha scritto anche prose: Gli immediati dintorni (1962, ed. post. 1983), L’opzione e allegati (1964, poi in Il sabato tedesco, 1980), Senza l’onore delle armi (1987).
Tra i volumi di lettere, il carteggio con Attilio Bertolucci (Una lunga amicizia. Lettere 1938-1982, 1994).