Su e da "IL MARE BEVE ME STESSO" di Francesco Cagnetta. Recensione di Carlo Giacobbi
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Francesco Cagnetta, nato nel 1982, vive a Molfetta (BA). é avvocato.
Ha frequentato la Scuola Pound curata da Michelangelo Zizzi.
Alcuni suoi testi sono stati pubblicati e recensiti in rete su blog letterari come “Neobar”, “Zona di disagio”, “Poetarum Silva” e sulle riviste “il ClanDestino” e “Anterem”.
Altri testi sono apparsi nelle antologie: Trittico d’esordio, a cura di Anna Maria Curci, Cofine 2017; Come una mezzaluna nel sole di maggio - Ricognizione della poesia pugliese 1975 / 1994, Fallone Editore 2017; Dalla fine del mondo - Poesie per Francesco, Luce e Vita Edizioni 2018; Enciclopedia della Poesia Contemporanea, Fondazione Mario Luzi 2020.
Nel 2020 esordisce con Pianeti di Carne, Edizioni Transeuropa - Nuova Poetica.
È risultato tra i finalisti del Premio Internazionale “Alda Merini” 2017 e “Talento da Poeta” 2017; ha ottenuto una menzione d’onore al Premio “Lorenzo Montano” 2018 e 2019 e al Premio Internazionale “Don Luigi Di Liegro” 2020.
Altri suoi testi sono presenti nell’Antologia della Poesia Italiana Spagnola (Volume 2), Ciesart Edizione Internazionale Barcellona 2020.
Nel mese di settembre 2021 è uscito, per Arcipelago itaca, il suo secondo lavoro in versi Il mare beve me stesso.
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Ciò che viene in dominante nell’opera di Francesco Cagnetta è la pervasività del dolore nella storia individuale e collettiva.
Non a caso, il sostantivo «dolore», è mise en relief in quasi tutti i componimenti della silloge, anzi, ossessivamente iterato a guisa d’un refrain volto a marcare l’onnipresenza del mal de vivre.
La cennata ripetizione, lungi dal rappresentare un mero espediente anaforico, o una sterile superfetazione sintagmatica, si atteggia a disegno programmatico del corpo testuale, quasi l’autore utilizzasse il vocabolo ad ictus, a colpo, a vibrante percossa sul testo, ridondante sul campo visivo, auditivo nonché cinestesico del lettore, al fine di indurre quest’ultimo a cum-patire, a condividere assieme al poeta la dimensione afflittiva.
Un’afflizione ubiqua, che l’autore, appunto, rinviene ovunque, atteso che, come si legge a p. 62, «questo dolore ci abita dappertutto»; una sofferenza ipertrofica, figurata attraverso l’immagine di un’espansione territoriale che colonizza l’io-lirico, fino a soggiogarlo, a sottoporlo all’imperium del patimento.
È quanto emerge, a titolo esemplificativo, nella lirica di p. 53, ove il Nostro afferma che «l’atlante del dolore si espandeva / metteva bandiere e capitali / ci faceva schiavi» o in quella di p. 43 ove si legge del «dolore che mi comanda» (cfr. a fortiori, p. 21, «la corazza che non arresta / l’avanzata del dolore»).
La cognitio del dolore (rectius: «La conoscenza del dolore» di cui alla prima sezione) - appropriato titolo di ascendenza gaddiana - si concreta nella constatazione dello stato afflittivo in cui versa l’uomo già all’atto di venire al mondo, alla medesima stregua del nascimento leopardiano descritto nel Canto notturno, cui Cagnetta, a suo modo, sembra fare eco nella lirica incipitaria di p. 17 ove scrive «Alzai la testa, chiusi gli occhi per uscire / e il dolore era già lì, impresso sulla faccia / al casello del primo fiato» (cfr., ad abundantiam, p. 28, «all’origine del dolore che ci partorì»).
Se la vita è sventura, se il dì natale è funesto a chi nasce – sempre stando al “Job del pensiero italiano” (così Carducci definì Leopardi) – l’evento terminativo della morte, purché istantaneo, pare al Nostro il minore dei mali.
Infatti, come è dato leggere a p. 31, «la morte non porta dolore», anzi libera dallo stesso, generando absentia di aìsthesis; condizione rinvenibile nel corpo esanime, nel «corpo di fuliggine» di p. 18; status forse preferibile al «corpo vivo» (cfr. ibidem) che, incarnando in vita la morte, si macera nell’angustia, nella disperazione, quale malattia mortale di kierkegaardiana memoria.
A tale filosofia sembra ispirarsi Cagnetta laddove a p. 55 fa riferimento alla «morte lenta e continua / che non porta a una morte vera».
Nella silloge in analisi l’invasività del dolore è tale da elevare lo stesso ad unità di misura del tempo: «Qualche dolore fa» si legge a p. 38, a voler significare che il pathos, la sofferenza, è talmente battente, da scandire gli attimi del Kronos, del tempo lineare, tanto da dilatarlo, da porre l’io in stato di penosa, languente attesa dell’evento finale (cfr. in tal senso, p. 33, «questo andare incontro alla morte / (…) /questo stare ad aspettare / la mano del tempo»).
La sezione rubricata «Dolore familiare» non muta – lo suggerisce già il titolo – la linea tematica di cui s’è data contezza; solo la specifica nell’alveo degli affetti più intimi (cfr. p. 56, «Il dolore familiare è una specializzazione / del dolore comune»), nel «nido» pascoliano (cfr. p. 59; p. 60).
Il dolore comune, nel pensiero di Cagnetta, si risolve nella sofferenza tangibile, concreta o fisica, che è «nel buco della mano» (cfr. p. 56), nella «ferita che si spezza» (cfr. ibidem); quello familiare, al contrario, appare più subdolo, sotterraneo, pertinente alla sfera psichica, ad un quid che oscura la mente alterandone gli equilibri; un dolore non identificabile, che «non ha faccia / [che] / vive di paure e di silenzi» (cfr. ibidem) tanto da ingenerare nell’animo l’avvertimento di eventi funesti, quali, ad esempio, la perdita del “nido”: «sembra che casa crolli» (cfr. ibidem).
Al frustrato desiderio di felicità rinvenibile nell’opera (il massimo cui si possa aspirare è la «muta consolazione» di p. 68) il poeta tenta di opporre l’escamotage leopardiano della distrazione, della vita attiva come allontanamento attentivo dal desiderio di assoluto, come si legge alla cit. p. 68: «il colletto della camicia / l’acacia, la concimazione. / Guarda la tv. Cambia canale. / Rinuncia a te che sei, / che più ci pensi / e più ti vien voglia di scappare».
Ma il rimedio è palliativo. L’eccessivo attivismo – ricorda R.L. Stevenson nell’Elogio dell’ozio – è sempre sintomo di scarsa voglia di vivere, tradisce, in sostanza, una sorta di nausée sartriana, la percezione della gratuita insensatezza dell’esistente in cui l’uomo stancamente si trascina.
È questa la visione del mondo che emerge nella poetica di Cagnetta anche nella terza ed ultima sezione del libro («Verbo chiuso»), ove il poeta utilizza locuzioni quali «fato quotidiano» (cfr. p. 90), «seme dell’incertezza» (cfr. p. 92), «squarcio sempre aperto / di ogni mia domanda» (cfr. p. 93), frammenti che denotano lo smarrimento esistenziale in cui versa l’uomo contemporaneo, la sua difficoltà ad invenire la ratio ed il telos d’un non intellegibile destino.
L’autore fa largo uso di toni e patterns della poesia crepuscolare.
Il dettato è dimesso e pacatamente rassegnato; l’io, sostanzialmente a-relazionale, è soggetto a ripiegamenti intimi connotati dalla bile nera d’una «malinconia [che] si fa carne» (cfr. p. 43); viene recuperato il modello del puer corazziniano, del fanciullo che piange, come si legge a p. 45: «Se poggio il capo sul petto / sento un bimbo che piange».
Ma faremmo torto all’opera se non ci avvedessimo che Cagnetta, fermo quanto sopra, sa acutamente leggere il dolore non solo nella dimensione meramente afflittiva, di pena scevra da ogni giustificazione o scopo, ma anche in quella più propriamente catartica e pedagogica.
Quanto detto trova conferma in versi quali «Il dolore è lo specchio / che ci apre la faccia» (cfr. p. 19) o in altri versi, tipo «Il dolore si offre per donare» (cfr. p. 28), a sottolineare le possibilità di discernimento e di crescita interiore offerte dalla sofferenza.
Del resto il poeta chiama in causa anche la speranza, affermando e ribadendo energicamente nelle epifore di p. 69 che «Lei c’è» e che «Siamo noi che non la cerchiamo / che non cediamo l’attimo per guardare» (cfr. ibidem).
L’autore sembra invitarci a riflettere su «cosa siamo diventati» (cfr. p. 53; p. 54), quasi a indicare la responsabilità personale di ciascuno in relazione al proprio eventuale – ma purtroppo oggi ricorrente – stato di malessere esistenziale.
Il titolo, la legittimazione del dolore – come scrive Cagnetta nell’esergo di p. 61 – la giustificazione dello stesso (cfr. p. 55), il fatto costitutivo dell’afflizione, deve essere considerato anche frutto dell’atteggiamento nichilista e disfattista del singolo, la cui «colpa» (cfr. ibidem), risiede nell’attribuzione del «proprio dolore» (cfr. ibidem) sempre a fatti esterni (la pasta scotta, le chiavi perse, il vento che non asciuga i panni nell’es. di p. 55), e mai, come si converrebbe, a sé stessi e al proprio porsi negativamente nei confronti della vita.
Carlo Giacobbi
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Da IL MARE BEVE ME STESSO
Per conoscere il dolore
dobbiamo sapere chi siamo
quale corpo abitiamo
e per questo non servono
libri e manuali,
per questo a poco serve
la poesia.
x
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1.
Alzai la testa, chiusi gli occhi per uscire
e il dolore era già lì, impresso sulla faccia
al casello del primo fiato.
A quel tempo parve cauto, previdente,
– un rumore al mercato della voce –
lento si annunciò, si fece preghiera
e necessità, misura del limite,
cordoglio in prima persona.
Allora pensai che il dolore fosse chiuso lì,
tutto in una tasca e che bastasse
gonfiare le vene fino a cento
mancare l’appuntamento
sottrarre il corpo al suo feroce abbraccio.
Fu così che imparai a contare i secondi
e la salita, a contare solo sulle dita.
*
21.
Qualche dolore fa avevo un volto
simile al mio, mani riflesse
di cui sapevo.
Adesso che mi volto
l’immagine è sbiadita
muta il raggio, indietreggia.
Allo specchio vedo solo sembianze
un trofeo di mancanze.
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28.
*Se poggio il capo sul petto
sento un bimbo che piange
e un passante strillare
– affinché smetta –
ma il vagito è senza fine
non trova ragione
in un corpo così stretto
non ha corde e lacrime durevoli.
Qualcuno, di sicuro, piange per lui
per un dolore senza pace
per un ricordo che non tace.
x
*
Ho creduto che i bambini
non provassero dolore
se non lo sanno pronunciare
e che la memoria tutto compiesse
per non ricordare.
Secondo questo assunto,
sarebbe sufficiente
dimenticare le parole
e ogni altra ascensione cerebrale?
*
31.
Non mi accorgo di cosa siamo diventati
dei divani sprofondati sotto il peso dei malanni
e di quegli anni che restano appesi come quadri
alle pareti del soggiorno e di noi
di quando questo dolore si annunciava
e pensavamo fosse un fischio d’orecchi
il mal di testa plumbeo del cielo.
Ma l’atlante del dolore si espandeva
metteva bandiere e capitali
ci faceva schiavi senza saperlo
senza svelarci la mossa e la partita,
la posta in gioco rapita.
E noi, per non essere scortesi,
aprivamo porte e finestre
davamo divani, letti e suppellettili
l’immagine tenera e composta
di ciò che siamo diventati.
Per questo tieni lo sguardo lontano
chiudi le imposte e conta le ore
non dare spazio – nemmeno una sedia –
a questo dolore, sii l’Ulisse
che non dette alcuna debolezza
alla grazia di Circe.
*
Le cose comuni appartengono a tutti,
e se è vero che ciascuno si distingue
da ogni altro essere umano,
allora che cos’è il dolore,
v’è distinzione tra individuale e universale,
in quale punto l’uno stringe la mano all’altro?
34.
Il dolore familiare è una specializzazione
del dolore comune:
il secondo lo incontri per caso,
riesci a sentirlo nel buco della mano
in una ferita che si spezza.
Il primo non ha faccia
e sangue che spinge
vive di paure e di silenzi
sembra che casa crolli
ma resta sempre lì
compatto come un tappo
nella solida geometria
della carne.
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46.
Sullo spigolo opposto della tovaglia
è seduta la speranza. Lei c’è.
Sepolta nell’ossario da stirare
che con l’artrosi cervicale
moltiplica il finale. Lei c’è.
Nelle cerniere ossidate delle finestre
nelle minestre cotte a voce bassa,
nei sughi lasciati a raffreddare. Lei c’è.
Nei pilastri gonfi della gola
negli occhi che esplodono coperchi
e chiedono di bruciare. Lei c’è.
Sotto la polvere dei neon
sotto la lama rovente del buio
che s’avvicina. Lei c’è.
Siamo noi che non la cerchiamo
che non cediamo l’attimo per guardare,
siamo noi che nascondiamo questo dolore
sotto i vetri, nel richiamo degli stucchi
per non sentirci meno soli.