Su e da “LA CASA E TUTT’INTORNO” di Edoardo Occhionero. Con una nota critica di Lorenzo Fava


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Edoardo Occhionero (Carate Brianza, 1997) è laureato in Traduzione presso l’Università degli Studi di Torino con una tesi sulla poesia giapponese contemporanea a verso libero e su una proposta traduttiva di Takahashi Mutsuo. Attualmente è iscritto al Dottorato di ricerca in Digital Humanities presso la medesima università. È vincitore del Premio “Elena Violani Landi” 2019 - Sezione Inediti. Suoi scritti sono comparsi online su “Atelier Poesia”, “Argonline”, “Diario di passo” – il blog ufficiale di Franca Mancinelli –, “La morte per acqua”, “Malgrado le mosche” e “Mirino”. Ha inoltre curato l’introduzione e la traduzione di due poesie di Arai Takako uscite per “Almanacco Internazionale” de “Lo Spazio Letterario”. Alcune sue poesie in giapponese sono state pubblicate su “BUBU” e in diversi numeri di “Inkarepoetori”, rivista interuniversitaria che raccoglie i contributi dei principali atenei giapponesi.
La casa e tutt’intorno – opera vincitrice della 9^ edizione Premio “Arcipelago itaca” per una raccolta inedita di versi - Opera prima – è stata pubblicata nel 2024 da Arcipelago itaca Edizioni.
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La casa e tutt’intorno di Edoardo Occhionero mette in crisi alcuni miei concetti. La prima sezione, come esplicitato nella nota dell’autore all’inizio del testo, racconta “immaginando di vedere le fasi della demenza dagli occhi della nonna”. Chi scrive qui di questo libro riconosce il progetto che c’è dietro al testo nel suo insieme, e pur con qualche piccola riserva su cosa è lecito “progettare”, adora una scrittura come questa. Perché i testi tengono uno ad uno, e il parlare essenzialmente di oggetti, dettagli di realtà che creano un immaginario tale da far diventare il concetto poca cosa è un piacere e un onore. Tanto più perché non conosco l’autore e, in queste righe, provo a capirlo. Mi interessa la ragione umana dell’arte, e quanto alto sia il prezzo da pagare per scoprire un tema, la genesi, un’urgenza espressiva. Fare i conti con il ricordo della malattia di un caro e con il declino del suo pensiero è un modo di dare misura del deterioramento di una lingua, di cui la malattia assume le sembianze. Quindi, anzitutto, vorrei esprimere una lode al coraggio e all’inventiva dell’autore. Quello che più mi avvince però di una creatività simile è quanto la maniera di procedere, nella composizione del libro, “rubi” all’aspetto formale dei singoli testi, situazione che a mio avviso spesso si verifica quando il campo d’indagine del senso è troppo più preciso di quello metrico, ritmico e stilistico latu sensu. Ed è proprio qui che il libro mi sorprende: è con l’affetto per la famiglia e col valore del ricordo che Occhionero fa i conti; cosa è in poesia più urgente di questo? Trascorre il tempo, il futuro si accorcia, il passato si dilata e i versi servono ad ordinare gli eventi, spuntare i giorni sul calendario, stare con gli oggetti che, insieme alle figure familiari, sono i veri protagonisti del volume. La procedura con cui la seconda sezione si compone ha delle analogie con la prima: Occhionero entra nella lingua di chi ascolta e, cogliendone con sensibilità e grazia le sfumature più vicine, la fa parlare. Se da un lato i versi lunghissimi fanno entrare quasi nella prosa, dall’altro la “nominazione” della realtà che si “abita”, “la casa e tutt’intorno”, dà misura dell’acuta percezione dei dati sensoriali, che sono la maniera di elencare momenti e storie della vita di uomini diversi, di un ceppo familiare. Se è vero – e non ne sono sicuro – che la poesia è un mezzo di conoscenza, Occhionero scrive per leggere quello spazio che la sua memoria contiene e da cui è al contempo contenuta. Mi interrogo spesso su quanto questo “costruire” sia coerente con l’idea dell’urgenza dello scrivere e, ripeto, questo volume sorprende e mette in crisi perché non è solo costituito dallo strumento, dalla lente che serve ad entrare nel dettaglio, ma anche dalla sintesi a cui si giunge con lessici (dialetto compreso) retti egregiamente nella misura lunga. Il verso non perde mai tono, e gli accenti sulla frase tengono insieme e mettono a concerto le cose nominate. Ma è l’interpretazione della lingua, che cambia con lo scorrere del testo, ciò che più mi piace e su cui vorrei concentrarmi in queste righe. La lingua non serve solo a descrivere il circondario; anche il suo svolgersi è orientato a rappresentare la vicenda della demenza della nonna: “Mi passa tutto davanti, la casa, il tavolo con le verdure nel piatto / il prato davanti e dietro la casa, tutto. La voce / dell’Edoardo fatta più da uomo. // Arriverà comunque un altro tempo, ho chiuso gli occhi per non vedere”. È questa parola che sempre più disorienta, che calca il tema, che procede di pari passo all’avanzamento della condizione di cui si occupa ciò che più mi convince del volume. Terza sezione: è con le epigrafi di Zanzotto e Benedetti che aprono e fungono da manifesto dell’intenzione del dire che si entra negli oggetti, nel “tutt’intorno” della casa. “Passi”, “cani” e “cortili” si richiamano con vecchie foto, periodi trascorsi, luoghi e figure familiari che le pagine raccontano. Mettendo in risalto le cose, facendo parlare loro, la scrittura le fissa e fissandole ordina i momenti, “perimetra” la geografia emotiva che le lega. “Non ricordo con che fiori lo salutò il papà / sono passati sette anni e accarezza ancora i muri”: la scrittura diventa non solo una memoria, ma una vera e propria cronistoria. È questo che intendo quando provo a formulare – cosciente dell’impossibilità di essere esaustivo – i tempi che il volume tratteggia e, sfilandosene con una punta di sorpresa, lascia con delicata eleganza: “Rendere di nuovo la cura di sbucciare una mela. Cos’era / in fondo aspettare le amarene e il rastrello che le tirava giù. // Mi tengo a questa porta che è vedere dietro / nelle corse, nei lampioni cadaverici di fine estate”. D’altronde, anche il dialetto della terra dell’autore e della sua famiglia sta a significare l’attaccamento alle radici che, senza toni altisonanti, vengono raccontate nei dettagli partendo appunto dalle cose. “Ho fissato le case fino a staccarle dal verde intorno”: questo verso è a mio avviso la cifra del libro intero che, come già dall’azzeccatissimo titolo, annuncia ciò a cui la scrittura è orientata. Questo aspetto è cruciale nella costruzione, ma da solo non rende giustizia alla tecnica di cui queste pagine non sono affatto manchevoli. Si guarda spesso, infatti, all’idea complessiva che fa di una serie di poesie un libro, ma perdendo talvolta di vista quella che è la “tenuta” dei frammenti. Penso infatti che il complesso, l’unitarietà di una raccolta di poesie sia certo un valore aggiunto, ma che non deve assolutamente andare a scapito della singola composizione, della singola pagina. Occhionero riesce benissimo a far convivere il testo con la sequenza, e l’ordine che trova, coerente con il racconto del libro nel suo insieme, acquista un quid che lo rende più pregevole di quella che sarebbe stata una silloge di frammenti slegati. Si può parlare di poemetti, per queste tre grandi sezioni? A mio avviso sì. Tra le molte formule che la poesia oggi ha per dire una storia, questa di Edoardo Occhionero si pone in un rapporto dialettico con la cosa di cui parla, e a testimoniarlo non sono solo il dialogo della seconda sezione o la messa in versi della malattia della nonna, ma anche l’area, lo spazio che viene scritto per non far cadere le figure e i luoghi negli abissi della memoria, dell’inevitabile passaggio. Il sentimento esce da queste pagine e arriva al lettore filtrato dalla coscienza letteraria che l’autore porta con sé donandoci, lontano dall’elegia, una figura di “casa” che ci legge.
Lorenzo Fava
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Da LA CASA E TUTT’INTORNO (Arcipelago itaca Edizioni 2024)
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Quanto muoversi dalle finestre, l’acero ha degli aquiloni
al posto delle foglie. Sfiata il caffè dalla moca
sfumano anche alcune parole che vorrei dire a queste piastrelle.
C’è solo la casa e tutt’intorno. Una volta un uomo piantava le verze
di là dalla recinzione, assisteva i fichi che ora si disintegrano nell’erba.
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Se passo davanti allo specchio del bagno vedo una
asimmetrica che guarda quello che faccio.
Prendo il pettine e lei lo agita, apro la bocca e le vedo la lingua.
E come non ritorna la parola che getto.
Il bagno è stato ristrutturato
almeno tre volte, il box doccia sempre all’angolo ma il lavandino
ruotato di una parete. Dove c’è la cabina armadio un tempo la stanza della caldaia.
Prima questo piano era tutto il garage delle auto
e lo sgabuzzino con delle cose che si lasciano, le biciclette
le scatole con le viti e il compressore. Da quando
siamo invecchiati abbiamo ricavato una camera da letto
da dove un siparietto di vetro copriva il ferro da stiro
e c’era un letto ortopedico per i massaggi alla schiena del Carletto.
Dopo abbiamo aggiunto anche una cucina.
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Ha scaricato dalla macchina l’acqua confezionata e la carta igienica,
anche qui una volta la neve si sdraiava sulla felce selvatica o sul plexiglass.
Sarà veramente finito quando non ci saranno più le ultime galline
e le uova si dovranno comprare, l’orto levigato lasciato a pareggiare l’erba.
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Natale con le distanze sulla tavola, la mano tenuta sotto
per non sbriciolare. Ancora il venire di una fretta
come l’invadenza dei corpi.
Ho immaginato la prima Volkswagen
Zoppas il primo frigorifero, come nevicava diverso sui piedi
la faccia della mamma meno triangolare per le rughe.
Anche se le abitudini si aggrovigliano
si tengono ancora vecchie foto che non si riconoscono.
L’odore di vecchio che l’armadio stringe non riesco più a dirlo
neanche il pendolo collocato nella sua mezz’ora.
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«Fai presto», le scale inghiottite dall’erba, «è quasi ora»
mi dice scostando il cancello. Si sentono aghi di voci nell’angolo
le travi indistinte, «alcuni non sono nati, è stato il temporale della scorsa settimana».
Ripenso ai ventun giorni di cova, al nonno che incendia i passati
alla vita sotto le piume e la paglia. Allora mi chiedo come ci si sente
a nascere sotto la pioggia, se nascere e non nascere siano la stessa cosa.
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Ha scaricato dalla macchina l’acqua confezionata e la carta igienica,
anche qui una volta la neve si sdraiava sulla felce selvatica o sul plexiglass.
Sarà veramente finito quando non ci saranno più le ultime galline
e le uova si dovranno comprare, l’orto levigato lasciato a pareggiare l’erba.
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Le ragnatele di ogni estate sotto al tavolo di plastica a segnare gli angoli.
Tiene le braccia poggiate sullo stomaco come un comodino. Mi chiede
se a Bologna si mangia bene.
Rimango con la faccia nelle cose, potrei contarla la ghiaia
mi viene da pensare alle colonne della casa, non hanno mai sentito
lo sfregare delle dita mentre cerco di comprimere un pensiero.