Su e da "LA POESIA DELLE MARCHE. IL NOVECENTO E OLTRE" a cura di Guido Garufi. Con una breve presentazione dell'opera
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Guido Garufi (Macerata, 1949), poeta e critico letterario, è autore di saggi e monografie relative a Pascoli, Gozzano e Campana. Per Montale, dopo una vicendevole e stimolante epistolografia, uscì Per una fenomenologia di Montale. In area estetica e metodologica critica Il tempo, il labirinto e la scrittura e Anàbasi e catabasi della critica ed altri sul registro simbolico e psicoanalitico. E' stato redattore di alcune riviste di rilevanza nazionale, tra le quali ”Punto d’incontro”, insieme a Giorgio Barberi Squarotti, Giuliano Manacorda, Angelo Jacomuzzi, Walter Mauro, Michele Prisco e Mario Pomilio. Con Remo Pagnanelli ha fondato e diretto la rivista di poesia e critica letteraria ”Verso” e sempre con Remo Pagnanelli, nel 1981, ha curato la prima perlustrazione delle nuove generazioni di poeti marchigiani di allora, Poeti delle Marche. Nel 1998, per il lavoro editoriale, ha curato La poesia delle Marche. Il Novecento.
Le sue raccolte di versi con introduzioni di Mario Luzi e Vittorio Sereni: Hortus, Conversazione presunta, Canzoniere minore (Archinto), Lo scriba e l’angelo (Archinto) e due anni or sono, per Aragno, Fratelli, con una nota di Giovanni Tesio; più recentemente, per Affinità elettive il romanzo Filigrane. Canzoniere apocrifo.
E' tradotto in spagnolo da Emilio Coco e in inglese, nell’antologia europea Trawling Tradition (London-Salzburg) da Desmond O’ Grady, sodale di Sartre e Beckett.
Ha tradotto alcuni autori latini per Bompiani. E' presente in numerose antologie tra le quali Il pensiero dominante, uscito per Garzanti, e la Storia letteraria, parte contemporanea (UTET). Ha scritto testi, in qualità di autore, per RAI 3 e Italia 1; per molti anni ha collaborato con ”Il Messaggero” e presso l’Università di Comunicazione e Lingue, IULM, di Milano.
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E' appena uscito, per Affinità Elettive Edizioni di Ancona, La poesia delle Marche. Il Novecento e oltre (pag. 552) curato da Guido Garufi. Il lavoro esamina il percorso poetico della nostra regione a partire dagli anni ’40 fino ai nostri giorni recuperando la precedente perlustrazione del ’98 (La poesia delle Marche. Il Novecento, il lavoro editoriale, pag. 616), a cura dello stesso autore, in merito alla quale Carlo Bo scrisse: ”Se si facesse in ogni regione il lavoro che Garufi ha fatto per le Marche, avremmo una storia della poesia italiana contemporanea più ricca e più completa”. Sull’onda di tale giudizio Garufi presenta, con una folta bibliografia, schede critiche, ed una densa introduzione, l’attività letteraria in versi marchigiana, cercando di intuire e verificare una eventuale linea di continuità. Lo snodo centrale sul quale il critico-poeta insiste è la “quarta rivoluzione industriale”, ovvero internet e il Web. Partendo da studiosi della materia, sociologi (come Bordieau o Ferrarotti), neuroscienziati (il tedesco Spitzer), critici letterari, accademici e militanti, se ne deduce, prove alla mano, la curva del linguaggio in generale, l’apparire di una neolingua affatto espressiva, la contrazione del vocabolario personale come l’uso attuale di soli seicentocinquanta vocaboli contro i millequattrocento della metà degli anni ’70, insomma, come si legge, “l’apparire di una lingua calcolante” e quindi di un “pensiero” anch’esso rivolto unicamente alla prassi e alla “numerazione”. Scrive Garufi che la poesia, al contrario della lingua d’uso, si giova di metafore, simboli, ampia e articolata aggettivazione e non si piega alle emoticon e agli spot, la nuova neolingua la impoverisce. Ma l’opera, riflettendo più in particolare sull’ultimo trentennio, avvista un legame tra il secondo Novecento e i “nuovissimi”. Secondo Garufi permangono solide le tracce di alcuni Maestri come Saba, Pasolini, Luzi, Sereni, Giudici, Caproni, Bertolucci, il Montale prosastico ai quali, in modo diretto o tangenziale, si rifanno i giovani poeti di oggi, in tutto trentuno tra vecchi e nuovi. Questi – a quanto si legge – sembrano rimanere ancorati alla tradizione reinventandola e, oggi più di ieri, recuperano modelli stranieri con particolare riguardo all’area angloamericana e alla tendenza ad avvicinarsi alla prosa.
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WEB: LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE LEGGERA, O QUASI…
(La neolingua: una questione di metodo)
Ma a che punto siamo oggi, o meglio, quali sono i connotati di questo ultimo trentennio? Alla “lenta” biblioteca di Monaldo si è sovrapposta quella del computer che indubbiamente è più informata: il libro diventa omogeneo e multiplo appartenendo alla biblioteca universale, alla piattaforma. Qui va fatta una riflessione di carattere metodologico e quindi di approfondimento critico ed estetico. Come si è detto nei dibattiti degli ultimi venti anni, anche nelle Marche, si è sostenuto, a torto o ragione, che la provincia avrebbe avuto una finalità residua rispetto al ruolo che aveva nel Novecento. Questo fenomeno, si è azzardato, si manifesta in relazione al processo di globalizzazione del pianeta. La tensione e la visione cosmopolita, si aggiunge, sarebbe il nuovo soggetto. Lo scriba “nascosto” nella provincia o nel paesino più recondito, può raggiungere uno spazio prima impossibile da esplorare\navigare, può interloquire con chiunque, ed eventualmente può addirittura confrontarsi. Ma a ben leggere le riflessioni non enfatiche su tale funzione strumentale è d’obbligo, anche morale, approfondire non in superfice Manfred Spitzer quello di Demenza digitale, Corbaccio, 2019, Connessi e isolati, Corbaccio, 2018, e i due recentissimi Solitudine digitale, Corbaccio, 2016 ad Emergenza smartphone - I pericoli per la salute, la crescita, la società, Corbaccio, 2019 (si chiarisce che Spitzer non è il grande critico Leo Spitzer, che chi si occupa di letteratura, ma è uno dei più rinomati ed eminenti neuroscienziati tedeschi). Emerge un concreto panorama davvero più magmatico e discutibile e labirintico, un territorio dove il critico, di qualsiasi rango o parte, si troverebbe sbilanciato. L’oggetto (la lingua letteraria) da interpretare è diversa e mutata. Impotente o straniato è l’atto ermeneutico. Fondamentale insieme al primo è il testo è quello di Tomàs Maldonado, Memoria e conoscenza, sulle sorti del sapere nella prospettiva digitale , Feltrinelli, 2005, Reale e virtuale, Feltrinelli, 1992 sec. Ed. 2005. Centrale e utile ai nostri fini è Critica della ragione informatica, Feltrinelli 1997 e poi 2006, saggi non eludibili per affrontare una Crestomazia (quale che sia) non prossima all’infinito, meglio ancora una Crestomazia “inclusiva” nella sua esclusività, proprio per avere in mano un “metodo” per quanto potenziale, ai fini di “rintracciare” i segni di una “letterarietà” dentro una lingua standardizzata, ed omogenea oltre la fisiologica “semantic confusion” o il banale “telegraphic speech”.
Ma fin da ora ci si dovrà chiedere: quale è la novità centrale dell’antropologia del soggetto, l’autore nel nostro caso, o in che modo è mutata rispetto al secolo scorso? Questi venti anni che ci separano dal ‘900 hanno introdotto ciò che prima era certamente in ombra o germinava. La variante fondamentale è determinata dalla velocità e dalla contrazione del tempo. Una velocità non di apprendimento ma di informazione se è vero che per apprendere è necessario sedimentare, avere e recuperare ”il tempo” per “riflettere”. Insomma è il meccanismo totalmente interno (quasi endogeno) che è cambiato, non che sia mutata la categoria del tempo, il tempo come categoria, ma è cambiato il suo ”uso” fino allo sfilacciamento e frammentazione, fino all’usura. Non è inutile, anche se può sembrare eretico, ritornare a ciò che si pensa del pensiero poetante.
Per Hegel la filosofia, lo stesso pensare ha a che fare con la ”fatica del concetto”, anzi è il suo ruolo, quando per fatica si intenda il ”tempo di elaborazione” (e comprensione, dunque) che è e resta la condizione sine qua, tramite la quale, qualsiasi “lettura” testuale è, in sostanza, “più” garantita. E chissà se, a posteriori, lo “studio matto e disperatissimo” dell’Autore infinito non sia metafora di questa “fatica”, di tale metabolizzante e “lento” e necessario apprendimento… Soprattutto oggi per chi si accinga a redigere una Crestomazia valida ed “utile” per rintracciare linee o tendenze, filoni e “ragne” necessariamente partendo da una certa e stabilizzata storiografia (critica e storica, estetica ed ermeneutica), e non si accontenti del “volo a raso”. E' sempre Hegel che ricorda come insista una grande differenza tra ”noto” e “conosciuto”. La notizia, il “noto”, è una cosa, la conoscenza-apprendimento-filtro è ben altro. Vi è un abisso.
La riflessione sulla cosa-notizia è altro rispetto alla sua decodifica e approfondimento. La notizia è rapida e ingannevole, anche se necessaria, la pluralità delle notizie, meglio ancora l’accalcamento delle notizie e la loro “associazione rapida” evita l’approfondimento, l’accalcamento e la rapidità associativa interrompono il “tempo” della “meditazione” del e sul testo (sia come atto creativo sia come atto critico). Differente è il prelievo di notizie e “nozioni ” scientifiche che è indubbio e persino banale ripetere, sono tutte apparentate dalla stessa valida ed incontrovertibile “grammatica” universale (si pensi alla matematica o alla chimica e ai numerosi versanti scientifici).
Ora, per quanto ci riguarda, nell’area delle “belle lettere”, siamo davanti ad una dinamica centripeta più che centrifuga, le notizie si assiepano insieme alle bibliografie “concesse” dalla rete, a segmenti di poema, a sfilacciati fragmenta che emergono e galleggiano nel mare attuale dove non si scorgono o non affiorano neppure le sparute identità degli ossi di seppia, ruderi, relitti, se non una sequenza di citazioni e onde nominalistiche. Non si rintracciano stelle o direzioni, ma tutto è limpido, liquido, piatto e molto omogeneo, tutto è caratterizzato da un’identità centripeta, da un dinamismo totalizzante che fa diventare A uguale a B, una sorta di apeiron e di indistinto. E' ancora Hegel che critica Shelling a proposito del suo “infinito” simile ad una “notte in cui tutte le vacche sono nere”, che è la versione aggiornata e la “materia” di cui qui si discute. Questa è la situazione reale e frontale. Non si dovrebbe giudicare tale posizione un “azzardo critico”: infatti qualsiasi singolo scriba, metropolitano o provinciale, di una grande città o di un paesino, si è detto, è “interno” a questo “sistema” cinetico (nelle nostre Marche o in Italia). Da questa “tana”, per dirla con Kafka, non si esce. L’attrazione è determinata dal movimento digitale verso un centro senza logos, una tabula informativa che tenta-spera ogni potenziale “allungamento” conoscitivo-informativo, supponendo “approfondimenti” e “senso” e “comprensione”. In questa dimensione, è piuttosto utile, ai nostri fini, inserire nella pentola bollente della quale stiamo discutendo le quaestiones rilevate dagli araldici teorici sopra menzionati che ho appositamente fatto emergere poiché la rivoluzione digitale non può essere ignorata per chiunque desideri “entrare” (da scriba o da critico) nel magma della attuale lingua generale e di quella poetica che è la materia della nostra attenzione. Sorrido se penso al dibattito sulla “libertà” che ultimamente ha suscitato la “costituzione ottriata” – come nelle antiche costituzioni regie – ovvero il “dono gentilmente concesso” da twitter, quello del cinguettio breve e sintetico, “consentendo” il passaggio da 140 caratteri alla ”libertà” di 280 caratteri. Quale riflesso, ci si chiede ancora, “colato” sulla lingua in generale, e quindi su quella poetica, è individuabile sia in riferimento alla critica (letteraria) che all’atto stesso dello “scrivere”? Quale influenza? Attualmente l’utenza, autore e il suo fruitore, dicono in una un’intenzionalità linguistica, a ”maglia stretta” sosterrebbe Leopardi. E' nota, d’altronde, l’indagine condotta a metà degli anni ’70 presso le Scuole medie superiori. A quei tempi un alunno possedeva un vocabolario “personale” di circa 1500 termini (lessico che include le congiunzioni), oggi non supera i 700.
Tale ristrettezza espansiva (terminologica e quindi aggettivale, nella costruzione della modulazione temporale, nella iterazione paratattica, etc.) si “coagula” centripetamente e questa angustia, quasi un soffocamento per ingolfamento, questa mancanza d’aria, si traduce molto spesso in testi, persino in poesia, descrittivi, residuali, a scanso della “metrica interna”, con l’abbandono della “fisiologica” musicalità, quale che sia. Essi non sfiorano neppure la prosa d’arte o simili, essi sono equivocati poiché la loro linearità, in genere, è priva di qualsiasi movimento metrico, persino interno o “registrabile”. Non che corra l’obbligo, ovviamente, ma preciso che chiamo metrica (nella sostanza) la duttile variabilità fonica che, in modi diversi, rende “vivo” il testo e non lineare, giornalistico o refertuale. Il che comporta un mutamento da parte del lettore che vede in questi linearità una ”potenza espressiva”, quando invece è di fronte a una prosa misera e, ripeto, lineare, che qualche volta, ai fini del nascondimento e della tattica, offre la possibilità di andare accapo, simulando una verticalità, una figura tipografica ascensiva (una emoticon nella clàritas bianca della pagina).
L’autore, e forse anche il critico, non legge, ”vede”: la ricerca delle fonti nella biblioteca a piattaforma è rapida, sinestetica. La tecnica associativa, il passaggio dall’una all’altra fonte, dall’uno all’altro poeta, senza tempo di stallo, senza ri-pensamento, porta l’eterogeneo, le singole identità, dentro un unico magma, un plancton visivo. Ci si può chiedere, a buon diritto, se il protagonista absonditus, sia “ancora” il testo e quale possa essere una sua eventuale comprensione. E' il primato dell’icona rispetto alla riflessione e alla metabolizzazione del testo, è il primato del suo effetto “emotivo” con assenza di radici. E' un qualche modo la tesi di Franco Ferrarotti nel suo Pensiero involontario nella società irretita e soprattutto Un popolo di frenetici informatissimi idioti, uscito nel 2014 per Solferino, per volontà di sintesi emblematica, si riporta un passaggio a pag. 7 e il secondo a pag. 11: ”L’audiovisivo, portato alle sue ultime conseguenze – ma chi può dirlo? – forse siamo solo agli inizi con Internet, Facebook, You Tube, e mail, e con il tablet, o tavoletta, la sua rapidità miniaturizzata dei processi, individuata dal celebre Steve Jobs, il grande profeta della putrefazione accelerata, morde più a fondo, intacca il modo di pensare degli umani, polverizza il vincolo logico-sintattico con la facilità di una paratassi indifferente ai contenuti, rende obsoleta la consecutio temporum, sgretola la coerenza facendo esplodere il principio di non contraddizione disgregando la struttura interiore dell’individuo”. Ferrarotti insiste ancora e chiarisce, se ce ne fosse stato bisogno, il perché del titolo: ”Il termine idioti, del titolo non è un insulto gratuito. E' da intendersi nel senso etimologico di “circoscritti”, “localizzati”, ”irretiti” “prigionieri nel web”. E' sempre più tardi di quanto si crede. Ora anche i periodici di grande tiratura, i fini dicitori del giornalismo salottiero e i compunti maggiordomi del potere quale che sia, i vati dell’ovvio e gli specialisti dell’aria fritta se ne vanno accorgendo. Un’intera generazione – come da almeno trenta anni vado documentando – appare nello stesso tempo informatissima di tutto, comunica tutto a tutti in tempo reale, ma non capisce quasi nulla e non ha niente di significativo da comunicare. E' una generazione al macero, appesa agli schermi opachi di TV, Internet, Facebook, You Tube, eccetera, destinata all’obesità catatonica e alla lordosi sedentaria. La stessa molteplicità ed eterogenea abbondanza delle informazioni la deforma, la fagocita, le impedisce di stabilire una propria tavola di priorità. Internet, priva della critica delle fonti, è la grande pattumiera planetaria e paratattica in cui giovani e giovanissimi, adoloscenti, ma anche giovani adulti, etc…”.
Indico a chi volesse per la prima volta studiare la dinamica di cui parlo, il bel libro, semplice, divulgativo ed esemplare di Lamberto Maffei, Elogio della ribellione, uscito per Il Mulino del 2016. Questo libro precede di poco due precedenti, La libertà di essere diversi ed Elogio della lentezza. Maffei è vicepresidente dell’Accademia nazionale di Lincei e professore emerito di Neurobiologia alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ben oltre la potenza provocatoria dei titoli, l’argomentazione scientifica dei testi teorici che affrontano la questione “linguistica” in senso lato, almeno nell’ultimo ventennio, è, fuor d’ogni dubbio, convergente. Pierre Bordieau, forse il più importante sociologo della seconda metà del XX secolo, è il più accanito ed analitico “investigatore” della questione relativa alla neolingua come “risultato” di un “panorama” politico-economico “globale”.
Il taglio non casuale che ho fino ad ora seguito necessita di questa “stazione riflessiva”, senza la quale nulla si comprenderebbe dei cambiamenti linguistici in atto dei quali mi occupo e dunque quasi nulla potrebbe “apparire” al lettore che voglia rendersi conto, con una “lente più alta”, delle trasformazioni generali, e della poesia, dunque, di cui si tratta in questo lavoro. L’estratto che presento e che ci riguarda da vicino, è tratto da “La neolingua liberale” - Note sulla nuova vulgata planetaria, a cura di Pierre Bordieau e Loic Wacquant, inserito nel volume collettivo Produzione, riproduzione e distinzione - Studiare il mondo sociale con (e dopo) Bordieau, a cura di Antonietta De Feo e Marco Pitzalis, uscito nel 2015 a Cagliari per le edizioni di CUEC, coraggioso e piccolo editore che, guarda caso, aderisce alla ADEI (Associazione Editori Indipendenti). E' necessario, allora, avvicinarsi quanto più possibile a queste “trasformazioni”, essendo il nostro lavoro puntato sulla lingua poetica che da quella generale deriva dopo aver insistito sulla “nozione” di “velocità” (cfr. internet etc.), sulla deflargazione del senso della storia, sulla “perdita” della memoria ed ancora altro.
Bordieau ha scritto monografie esemplari che inviterei a leggere allo studioso di settore. Qui mi limito a segnalare alcuni titoli: Le leggi della diffusione culturale, La responsabilità degli intellettuali, Sulla televisione, La riproduzione - Sistemi di insegnamento e ordine culturale. Ritengo sia un sussidio “in più” per l’amante della letteratura che non volesse fermarsi alla semplice “registrazione” di varianti (linguistiche, stilistiche e formali) ma, al contrario, rendersi conto del “panorama esterno”.
Diciamo sinteticamente una dinamica di causa ed effetto che ha corposi “effetti” sulla lingua. Scrive Bordieau: “Nel giro di pochi anni, in tutte le società avanzate, datori di lavoro, funzionari internazionali, funzionari di alto rango, intellettuali al servizio dei media e giornalisti di punta hanno iniziato a parlare una strana neolingua. Il suo vocabolario, che sembra essere sorto dal nulla, è oggi sulla bocca di tutti: ‘globalizzazione’ e ‘flessibilità’, ‘governance’ e ‘occupabilità’, ‘sottoclasse’ ed ‘esclusione’, ‘new economy’ e ‘tolleranza zero’, ‘comunitarismo’ e ‘multiculturalismo’, per non parlare dei cugini cosiddetti postmoderni quali ‘minoranza’, ‘etnicità’, ‘identità’, ‘frammentazione’, e così via. La diffusione di questa nuova vulgata planetaria – in cui sono assenti i concetti di ‘capitalismo’, ‘classe’, ‘sfruttamento’, ‘dominazione‘ e ‘diseguaglianza’, essendo stati rimossi, in modo perentorio, con il pretesto di essere obsoleti e non pertinenti – è il risultato di un nuovo tipo di imperialismo. I cui effetti sono tra i più potenti e pericolosi, poiché promossi non solo dai partigiani della rivoluzione neoliberista – che, sotto la copertura della ‘modernizzazione’, intendono rifare il mondo spazzando via le conquiste sociali ed economiche di un secolo di lotte sociali, da ora in poi dipinte come altrettanti arcaismi e ostacoli al nuovo ordine emergente – ma anche dai produttori culturali (ricercatori, scrittori e artisti). (…) La stessa dimostrazione potrebbe essere fatta sulla nozione altamente polisemica di “globalizzazione”, che ha per effetto – se non come funzione – di mascherare, con l’ecumenismo culturale o il fatalismo economico (…) un rovesciamento simbolico basato sulla naturalizzazione degli schemi del pensiero neoliberale, il cui dominio si è imposto dopo venti anni grazie al lavoro dei think tanks conservatori e dei loro alleati dentro i campi politici e giornalistici (…) la riconfigurazione dei rapporti sociali e delle pratiche culturali sulla base del modello statunitense, attraverso la pauperizzazione dello Stato, la mercificazione dei beni pubblici e la generalizzazione dell’insicurezza del lavoro, è accettata con rassegnazione e come inevitabile risultato dell’evoluzione nazionale, quando non celebrata con un entusiasmo da pecoroni. L’analisi empirica della traiettoria delle economie avanzate nella longue durée suggerisce, al contrario, che la “globalizzazione” non è una nuova fase del capitalismo, ma una “retorica” invocata dai governi al fine di giustificare la loro volontaria resa ai mercati finanziari e la loro conversione a una concezione fiduciaria dell’impresa. Lontano dall’essere – come ci viene costantemente detto – l’inevitabile risultato della crescita del commercio estero, la deindustrializzazione, la crescente diseguaglianza e il taglio delle spese per le politiche sociali sono il risultato di decisioni politiche locali che riflettono il ribaltamento degli equilibri di forza delle classi (…) Come le mitologie dell’era della scienza, la nuova vulgata planetaria riposa su una serie di opposizioni e ambivalenze che si sostengono e rinforzano l’una con l’altra per dipingere le trasformazioni che le società avanzate stanno subendo (passim) e trova il suo supremo compimento intellettuale in due nuove figure di produttore culturale, che sempre più stanno cacciando dalla scena pubblica l’intellettuale autonomo e critico che discendeva dalla tradizione illuminista. Uno è l’esperto che, nei corridoi oscuri dei ministeri o nelle sedi aziendali, o nell’isolamento dei think tank, prepara documenti altamente tecnici preferibilmente elaborati in un linguaggio economico o matematico, usati per giustificare scelte politiche fatte su un terreno decisamente non tecnico”. Si condivide pienamente tale lettura se si eccettua, da parte mia ovviamente, il termine "conservatore" che a me sembra piuttosto annebbiato nella indifferente e apparente bipolarità conservatore-progressista, valida unicamente – ed è il mio pensiero – come retorica della apparente differenza.
Per concludere la questione relativa alla lingua standardizzata, se ce ne fosse bisogno o curiosità, come spero, dopo l'intermezzo appositamente dedicato all'uso (e abuso?) del web, segnalo ancora un saggio davvero intenso, uscito nel 2016 per Nottetempo, di Byung Chul Han, docente all'Università di Berlino, Psicopolitica: il neoliberismo e le nuove tecniche del potere, in particolare i segmenti dedicati alla (cito) "ludicizzazione", alla "biopolitica", e all'"idiotismo". Questo, è opportuno ripeterlo, prché la quarta rivoluzione industriale (chiamata "leggera") entra a far parte della mia lente di lettura. La modifica dei testi, la loro "modulazione, la stessa parziale "sottrazione" della ricchezza lessicale, non possono non riferirsi a quanto ho tentato di argomentare. Chi si occupa di letteratura, in generale, non può evitare, ça va sans dire, questo snodo e cambio. Lo registra e ci riflette, anzi ci deve riflettere. Per l'amante della critica letteraria una ultima indicazione, fresca di stampa per Il Saggiatore, Il millennio breve di Alfonso Berardinelli che interpreta le dinamiche dell'ultimo trentennio. Una serie di articoli brillanti e di interventi tutti sul tema della omologazione e della mancanza di una critica coraggiosa e non descrittiva.
Nota personale e necessaria: conosco bene le “critiche” banali e pretestuose di alcuni che, non avendo altro da argomentare rispetto a tale evidenza, potrebbero, per sport (spot?) “attaccarmi” sostenendo che tali “socratiche” riflessioni sono di “sinistra” o di "destra". Io dichiaro con forza che oggi non so chi sono, so unicamente che quanto scrivo è evidente. Quanto a destra o sinistra, la tematica è così melensa, che ho come orientamento Giorgio Gaber e pochi altri.
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