Su e da "LA VOCE OBLIQUA" di Andrea Lanfranchi. Recensione di Luigi Cannillo

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Andrea Lanfranchi è nato a Civitanova Marche e attualmente vive e lavora a Fermo dove collabora con l’associazione culturale “La Luna”.
Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: vociverse (Ibiskos Ulivieri, Empoli 2009, Premio Autori per l’Europa); La Pesa (La Luna, Casette d’Ete di Sant’Elpidio a Mare 2010); cantiere in luce (CFR editore, Piateda 2014, Premio Fortini).
Ha inoltre pubblicato le sillogi Corpo di reato in Legenda (Fara Editore, Rimini 2009), A14 in Poesia di Strada XII edizione (Wizarts Editore, Porto Sant’Elpidio 2010); Il punto stabile in Poesia e Conoscenza N.2 (Edizioni Associazione La Poesia salva la vita, Milano 2016); La voce obliqua (Arcipelago itaca Edizioni 2018).
Sue poesie sono incluse nelle seguenti raccolte antologiche: Dire la Vita (Anterem, Verona 2008, Premio Montano); Retroguardie (Limina Mentis, Villasanta 2009); Tutti tranne te (Limina Mentis, Villasanta 2010); Le parole disabitate (Le voci della Luna, Sasso Marconi 2010, Premio Mezzago Arte); La torre dell’Orologio (Pro Loco di Porto Sant’Elpidio, 2011, VII edizione premio Città di Porto Sant’Elpidio).
È inoltre presente nelle seguenti riviste letterarie, cartacee e online: “Le voci della Luna”, “Argo”, “Arcipelago itaca blo-mag”, “La dimora del tempo sospeso” e “Poesia e Conoscenza”.

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Il cammino e i luoghi, le scoperte e lo spaesamento: La voce obliqua di Andrea Lanfranchi ruota attorno a questo asse, con le esperienze vissute nel corso delle escursioni compiute nello scenario dei Monti Sibillini e nei luoghi colpiti dagli eventi sismici del 2016. Ma il punto di vista, il carattere delle riflessioni e la stessa composizione dei testi rendono questo libro molto altro da un semplice diario di viaggio; piuttosto un percorso di formazione sollecitato dagli elementi della natura e dei territori, sia per gli aspetti più accoglienti che per quelli più devastanti causati dal terremoto.
Certo esiste una forma di forte empatia tra viaggiatore e ambiente naturale, in particolare nella prima sezione che dà il titolo alla raccolta. Lo spazio ne è tema centrale, con i luoghi nominati esplicitamente: vari riferimenti al paesaggio, alla flora e alle pietre, ai fossili, agli odori, ai profumi del bosco: “un giorno ricorderò la voce obliqua dei faggi/ il peso del corpo sulla terra il verde che diventa nero/ nel suo fuoco lo sguardo della volpe e la corteccia/ che si sfoglia [...]”. Ma già all’interno di questo ambiente è annidata e compresa la morte con il cranio degli animali e le loro orbite vuote e “…la rovina s’annida in una cupa radice…”. Nella seconda sezione, Cratere, l’escursione dolorosa avviene all’interno del paesaggio naturale e umano devastato dal terremoto e i resti scoperti della distruzione hanno il sopravvento: non solo nel paesaggio alterato ma negli stessi insediamenti umani perduti con quello che resta di ambienti, oggetti e animali: “Un armadio sospeso su pochi centimetri di solaio, di fianco/ un piccolo mobile con una macchina da cucire, lo specchio”.
Si alternano in tutta la raccolta elementi di luce e buio in uno slittare di ombre da più chiare a fonde, fra mistero, dubbio e consapevolezza. Ed è comunque, nonostante l’esodo di intere comunità “per un opposto mondo…”, è “…una luce senza fine” a concludere la raccolta. A questa opposizione si affianca quella, ancora più significativa, tra voce e silenzio, che appunto caratterizza anche il titolo: un “…arsenale di suoni…” che provengono da bosco e montagna: dai più timidi fruscii fino a un suono trasversale che coinvolge tutto e dà voce all’anima dei luoghi coinvolgendo l’autore stesso. I versi diventano quindi un alternarsi tra silenzi, afasia, voci e grida, un invito per lo stesso autore a tacere per ascoltare.
La stessa sensibilità della percezione (la vista, l’ascolto) informa la composizione dei testi: insieme a poesie con riferimenti, pur liberi, alla metrica e alla suddivisione in strofe a brani di tipo più narrativo, o di prosa ritmica, con una versificazione lunga e avvolgente, con la punteggiatura a volte ribadita puntigliosamente, altre volte assente. Dell’aspetto compositivo fa parte anche la polifonia, l’alternarsi tra testi in tondo e in corsivo, per il quale, nella logica binaria che appare anche per altri aspetti, i secondi, come in un controcanto, affiancano una voce collettiva, un coro lirico, a quella individuale. In una tensione dialogica che è fondante degli aspetti più meditativi e delle considerazioni più riflessive, nelle pause offerte dall’affiorare e scorrere di quella voce, fino alla terza breve sezione più lirica, tutta in corsivo, con una importante dichiarazione di poetica: “è più veloce di te questa scrittura, più di te conosce non sapendo/ arriva dove tu non vuoi, cerca scardina trova/ scrittura che lascia la schiena scoperta ed è erpice e terra/ e raccoglie e ricompone le tue afasie, le afasie della specie/ o il grido continuo e profondo che cuce le bocche e arrota i denti [...]”.
Lanfranchi non è un Wanderer individualista che si aggira nel teatro naturale alla ricerca dell’idillio o di una Arcadia, bensì un osservatore che alterna incanto e disincanto, figlio di una specie che si confronta con le altre e ne vive il respiro e lo spasimo. Portando nel suo bagaglio lo stupore e la meditazione ma anche la soggezione, lo spaesamento, una forma di coscienza critica – e autocritica: “Eppure c’è qualcosa di sbagliato in questo muoversi lenti/ di rovina in rovina pensando di poter capire, c’è qualcosa/ di sbagliato in questo tentativo di ricostruire le mappe/ di un altro mondo – come un incedere nel buio/ dentro nidi di cristallo”.
Spaesaggio, il neologismo titolo di una poesia, si può anche intendere come termine centrale ed emblematico. Riconduce a spaseamento sia nel significato di disorientamento, estraniamento, che nella morfologia stessa della parola come “non riconoscimento” o “non riconoscibilità” di un territorio. Nel sentirsi ormai estraniati nei confronti dei luoghi a causa della trasformazione delle loro caratteristiche, nel riconoscerne sbigottiti le qualità e i mutamenti avvenuti anche a causa di eventi straordinari. La voce obliqua contribuisce a “…riabilitare il senso…” rendercene consapevoli, a ricercarne e mantenerne l’osservazione, l’ascolto.

                                                                                                                                  Luigi Cannillo

 

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Da LA VOCE OBLIQUA di Andrea Lanfranchi

 

la voce obliqua
 
un giorno ricorderò la voce obliqua dei faggi
il peso del corpo sulla terra il verde che diventa nero
nel suo fuoco lo sguardo della volpe e la corteccia
che si sfoglia
avremo attraversato il passo in ore dolenti di sole
o chiusi nel freddo dei venti – se le nubi vorranno
attenti alla pietra e alla radice al segno dell’acqua
e ai denti che graffiano un’orma di fame – ricorderò
chi mi precede chiuso nel suo nido la sua festa
di luce o il buio che indovina – ricorderò la dura
parete e la frana sepolta nel dubbio
e lascerò a voi i nuovi intenti e questa fede di passi
verso il mattino

 

 

interno
 
Un armadio sospeso su pochi centimetri di solaio, di fianco
un piccolo mobile con una macchina da cucire, lo specchio
e nello specchio il cielo grigio di un autunno tardo a finire
e il suo piombo che ingoia il tetto, un pezzo di parete
e giù, in basso, il materasso gonfio di pioggia a coprire
le macerie e poi sedie tavoli e la sponda di un letto – cose
su cose, accumulate in un ordine strano.

E ti senti un intruso, imbambolato a guardare quella casa
squarciata, quello scorcio di vita privata che non conosci
e che a tutti appartiene, qui, tra questi monti, tra questi
borghi esposti al vento freddo di un inverno incipiente,
nel pieno di quello che alcuni chiamano “cratere” – fuoco
del disastro – perimetro inconsistente, confine tra passato
e futuro, o infinito terribile presente.

 

 

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strano bene cercate tra questi borghi queste fondamenta e strade
fatte di pietre miliari e argini e nulla – strano bene qui
dove la rovina s’annida in una cupa radice e guardare
è imbattere nel dubbio e nello smarrimento e soccombe
ogni rifugio – qui dove la lingua batte nomi nel vuoto
 
e non trovate parola perché solo silenzio ora vi accoglie e vertigine
– lontana ogni certezza la vita più chiara la civile corrispondenza
sapete necessario il vostro essere qui tra questi monti e queste ossa
esposte al vento, dove nessun grido s’alza se non dell’aquila rara
tra le cime più in alto – e come ombre camminate ora insieme
 
l’uno affianco all’altro

 


passaggio al centro del cratere
 
E se fosse come un ricominciare il peregrinare di borgo
in borgo, qui, al centro del cratere, affacciarsi alla storia
degli altri, alle loro case disfatte, alle cose lasciate e dentro
le cose alla vita – qui dove l’ombra del Vettore è più fredda
che mai e ogni muro la ricorda e ricorda i giorni trascorsi
dalla fine dei giorni, e l’incuria e le voci sommesse,
e un vento che chiama e tra gli stipiti delle porte sfida
i pochi cantonali ancora saldi, di stanza in stanza, e torna
freddo e indifferente sulla pietra e sui volti.
 
Eppure, c’è qualcosa di sbagliato in questo muoversi lenti
di rovina in rovina pensando di poter capire, c’è qualcosa
di sbagliato in questo tentativo di ricostruire le mappe
di un altro mondo – come un incedere nel buio
dentro nidi di cristallo.

 

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la vedi ora ripiegata come un lenzuolo la luce
serale e un arsenale di suoni che vorticano nell’aria
ascolti il pigolio che non distingui bene oltre le siepi,
dietro una casa – i bordi della facciata sgretolati dal bagliore
come una traccia nella memoria
 
guardi sempre oltre e non capisci come, tu non sai
cosa accada quando ti raggiunge, tu solo vedi, ascolti
e ti ritrovi in salvo
certe volte non scendi nemmeno dall’auto, accosti
stai lì, l’accogli
 
e niente è come prima

 

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è più veloce di te questa scrittura, più di te conosce non sapendo
arriva dove tu non vuoi, cerca scardina trova
scrittura che lascia la schiena scoperta ed è erpice e terra
e raccoglie e ricompone le tue afasie, le afasie della specie
o il grido continuo e profondo che cuce le bocche e arrota i denti
 
e schioda le mani dal legno e abdica a una mite epifania
– ma cosa chiedono i tuoi occhi
cosa possono per non cedere al peso del giorno?
guarda questo esodo che unisce come non mai uomini
per un opposto mondo, bocche smagrite dal dolore, eppure
 
c’è un bosco limpido stamane, disteso come un sogno d’acqua
una brezza che rinnova la terra dentro una luce senza fine