SU E DA “LASCIAMI IL SOGNO. CARTEGGIO 1982 - 1985“ di Anna De Simone e Biagio Marin. Recensione di Maria Grazia Maiorino

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Anna De Simone - Biagio Marin, Lasciami il sogno. Carteggio 1982 - 1985. A cura di Edda Serra - Prefazione di Giovanni Tesio, Il Ponte del Sale, Rovigo 2020, pp. 323.

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     La fiaba blu di un dialogo poetico e spirituale
     Preghiera xe consentimento / al fiuri d’un roser / da l’ala ad un pensier / al vento fasse bastimento (Preghiera è consentimento / al fiorire di un rosaio dar l’ala a un pensiero / al vento farsi bastimento). Lasciamo che sia la voce di Biagio Marin a introdurci nella lettura di questo libro: una semplice quartina, versi brevi, trasparenti, ma bastano a delineare un microcosmo che addita immensità, quasi ogni parola, ogni immagine si dilatasse dal piccolo al grande. E’ il mistero della poesia-vita, qui presente in ogni pagina, così simile alla preghiera nel consentimento verso ogni aspetto della creazione, compresa l’offerta d’amore arrivata improvvisamente in forma di lettera l’ultimo giorno dell’anno 1981. La lettera, accompagnata dalla tesina di Corrado, è firmata Anna De Simone, una professoressa del Liceo classico Carducci di Milano che sa entusiasmare i suoi “scolari”, avvicinandoli al mondo dei poeti da lei più amati, e progetta di scrivere un saggio da inserire nell’Annuario del Liceo in omaggio al poeta di Grado. Marin ha compiuto novant’anni, è ormai cieco e sordo, ma lucidissimo e da subito commosso e aperto a ricevere quello che considera un miracolo d’amore.
     Ci saranno viaggi e incontri, a partire dall’arrivo di Anna con un gruppetto di ragazzi, e soprattutto un dialogo raccontato nel carteggio come fosse un romanzo, un andare e venire di versi nell’antico dialetto gradese che “quasi si direbbe una sua invenzione”, come ebbe a sottolineare Montale, cercati e accolti ogni volta con rara capacità di ascolto e di far risuonare in sé e nella pagina ogni petalo di quella inesauribile fioritura. Anna De Simone vive l’esercizio critico come immedesimazione ed evocazione, rifuggendo da ogni intento accademico o direttamente didascalico. “Credo che dovrò studiare e lavorare molto, leggere e leggere per poi dimenticare tutto e bruciare la cultura nella scrittura. Se ne sarò capace” (p. 91). E più avanti: “Quando lavoro al suo libro, racconto a me stessa la fiaba blu della sua infanzia, delle sue prime scoperte, dei suoi paradisi. Grado è il punto di partenza e di arrivo della fiaba. La fiaba del mio incontro con Biagio Marin” (p. 264).
     Infatti il passo del poeta è sempre lieve, e si muove in un’atmosfera di continua trasfigurazione, in cui ciò che conta è il potere salvifico della poesia, il suo respiro universale sopra tutte le miserie umane. Egli è classico e romantico insieme. Classico nella forma e romantico nello spirito: “Non sono io, è il vento che infilandosi in una particolare fessura del mondo fa sentire la sua voce”, scrive. Profonde affinità elettive uniscono i due interlocutori in un dialogo che ha le qualità di un esercizio spirituale. Marin regala alla cara Anna alcune delle pagine più belle e chiare mai scritte sulla sua poesia e sulle ragioni della sua poetica, come sottolinea Edda Serra, Presidente del Centro studi di Grado e da sempre studiosa appassionata del poeta a cui esso è dedicato, nel saggio introduttivo Itinerarium mentis et cordis. Sia lei sia Giovanni Tesio, che intitola la sua prefazione La donna dei doni e l’uomo dei canti, si soffermano sul tema dell’amore, vissuto in un’atmosfera di sublimazione e di sacralità, e offrono al lettore chiavi di lettura essenziali per entrare nel cuore del carteggio.
     Profonde affinità si giocano proprio sul piano del linguaggio, ed è un passo di Massimo Cacciari, citato dalla stessa De Simone in Cinquanta poesie per Biagio Marin (2008), a illuminarci: “Noi non usiamo il linguaggio come nostro possesso, noi siamo nel linguaggio. La poesia apre questa dimensione originaria del linguaggio come qualcosa che non ci appartiene, che non è un nostro mezzo per determinare e definire cose, ma una potenza originaria, cui noi apparteniamo, e non appartenente a noi”. Parole come biavità e lontanìa ci affascinano e si fanno amare, entrando davvero a far parte del nostro lessico. Parole leopardiane e di tutti.
     Nel corso della corrispondenza e delle visite alla casa del glicine Anna vede concretizzarsi un ulteriore progetto molto più ampio di quello iniziale: comporre la sua biografia del poeta proprio in base ai documenti preziosi delle lettere a lei puntualmente inviate, insieme a testi pubblicati e inediti, diari e studi recenti (il progetto si realizzerà con la pubblicazione del volume L’isola Marin, biografia di un poeta, Liviana 1992).
     Negli anni della sua vecchiaia Biagio Marin ottiene importanti riconoscimenti e ne viviamo in diretta le tappe, le emozioni divenute sempre meno sostenibili a causa della sua fragilità, ma anche i dubbi e le incertezze sul proprio valore, e il rammarico per una fama arrivata tardi. La sua interlocutrice dichiara continuamente la propria inadeguatezza a trovare le parole giuste e intanto imbastisce le variazioni infinite di una sua musica sul tema dell’universo Marin, al quale continua a rivolgersi dandogli del lei e chiamandolo Maestro. Lui invece la chiama Anna e le dà presto del tu, sente l’empatia e la femminile devozione a un compito arduo, a volte si preoccupa e la mette in guardia dall’eccesso di fatica.
     Ma c’è un terzo personaggio, spesso nominato e chiamato in causa direttamente, il quale rende possibile il concretizzarsi della “granda aventura” del carteggio: è l’amico Franco Lauto, che legge le lettere di Anna e scrive sotto dettatura quelle di Marin, oltre a trascrivere i suoi testi poetici vergati a mano e ormai quasi illeggibili. E qui il discorso si allarga oltre l’orizzonte della poesia, e pensiamo ai tanti vecchi abbandonati alla loro solitudine, senza nessuno che ne raccolga le voci sui tempi ultimi della vita o anche soltanto le storie di un lontano passato da raccontare e tramandare. Ammutoliscono i grandi vecchi, gli uomini forse più delle donne, e ammutoliscono anche i poeti, senza la fortuna capitata a Marin, che ha avuto accanto i suoi amici fino alla fine e ha potuto continuare a donarci pagine importanti su cui riflettere. E versi sempre più rarefatti e quasi astratti, molto belli, che scandiscono fino alle soglie dell’afasia la grande sofferenza del distacco dal mondo, all’ombra di Qohèlet, come sotto la protezione di un’immensa quercia appartenente alla tradizione e alla bellezza di tutta l’umanità. Voce che viene da lontano, dai confini con l’aldilà. “Lampo del mistero, la parola poetica, dimora heiddeggeriana dell’Essere, nostra sola certezza”. (Commento di A. D. S. a Qohèlet, allegato alla lettera 119, qui a p. 312).
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                                                                      Maria Grazia Maiorino
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Passi scelti dal carteggio Lasciami il sogno
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Milano, 23/9/’85
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Carissimo Maestro,
     Quando lavoro al Suo libro, racconto a me stessa la fiaba blu della sua infanzia, delle sue prime scoperte, dei suoi paradisi. Grado è il punto di partenza e il punto di arrivo della fiaba. La fiaba del mio incontro con Biagio Marin.
     L’orlo dell’isola è l’orlo impalpabile delle sue liriche fatte di vento e di mare, nate dalla luce e dal silenzio. Parlano di vele bianche e di mare grande. Parlano di libertà.
     Come trovare un linguaggio che esprima sia pure in minima parte l’ineffabilità di un discorso lirico tanto alto?
     E che racconti non Grado, ma la Grado di B. Marin? Non esperienze di vita e di fatti, ma la poesia di quella vita?
     Come riuscire in quest’impresa? Con l’amore, Lei dice. Un amore che illumini la mente, che detti le parole giuste, i toni, le cadenze, le pause. Non Grado, non Gorizia, non Vienna né Firenze. Ma il mondo poetico che da questi luoghi amati, da queste visioni, da tanti dolori e amori e scoperte e illusioni è stato generato. Il mondo di Biagio Marin.
     Quando leggo una sua poesia a me particolarmente cara, mi sento in sintonia assoluta con il suo spirito, come se la mia persona non esistesse più, ma ci fosse soltanto quella luce di “vento sul mare” dei suoi versi…
     E ho capito che raccontare sia pure in modo inadeguato, sia pure con assoluta semplicità la grande avventura della sua vita significa donare un mondo di bellezza… Tante cose voglio ancora dirle, Maestro. Le scriverò fra pochi giorni. E tornerò presto a Grado, anche solo per un brevissimo saluto. Lei intanto non si stanchi. E pensi a quelle poesie sull’Istria che ha in mente. Saranno tanto belle: un ultimo dono d’amore all’Istria amata dell’infanzia, all’Istria amata della giovinezza. Lontana e vicina. Eternamente viva nel suo canto.
     Tante cose belle. Caramente.

                                                                      Anna

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Grado, 24 settembre 1983
 
Cara Anna,
     per un uomo della mia età, che ha fatto tanta strada avendo così rari e così pochi riconoscimenti le tue parole così pregne e della tua anima e del tuo sangue, naturalmente non solo mi sorprendono, ma mi sbalordiscono, ma mi incantano.
     E non basta: tu puoi ben immaginare quanto dubbio sulla mia realtà debba sollevare la tua appassionata, amorosa parola.
     Se tu ti ingannassi, anche la mia anima sarebbe inesorabilmente perduta: e per questa ragione mi avviene di prendere la tua testina fra le mani e dirti: Anna, misura la tua parola; non lasciarti portar via dalla gioia che ti dà la poesia quasi liberandoti di un involucro che ti ha serrata per tanti anni senza che tu potessi in realtà rivelarti tutta al sole di Dio, e alla gioia della luce. Il dramma che tu vivi naturalmente lo patisco anch’io e non credere che io mi possa abbandonare perché sono troppo vecchio e so troppe cose e soprattutto so di essere un dappoco, un assai piccolo poeta. Credo di averti già detto che nessun poeta può ritenere di essere lui il facitore delle poesie che egli scrive; e l’uomo che dimenticasse la parola di Omero, la parola di Platone, la parola dello stesso Dante che attribuivano agli dei l’origine della poesia, sarebbe uno stolto.
     Quando tu ti esalti nella natura dei versi che portano il mio nome, in realtà tu ti esalti nello spirito di Dio. Non sono io che posso fare di te una creatura in volo verso il sole, verso il cielo, verso una specie di paradiso. E tu fai bene a volare; ma non puoi e non devi attribuire a me la realtà di quel tuo volo. Tu, come me, devi ringraziare lo Spirito santo, lo Spirito creatore che ti pervade e ti rende tutta armoniosa e sonora e ti fa cantare e volare…
     Certo tu sei la prova, la più grande che io conosca, che la poesia può trasumanare una creatura…
     Con tanto affetto ti abbraccio e ti dico grazie.

                                                                      Biagio Marin