Su e da "MEM" di Davide Lucantoni. Recensione di Carlo Giacobbi
Davide Lucantoni è nato a Sant’Omero (TE) il 28 maggio del 1992. Si è laureato in Economia e management all’Università Politecnica delle Marche. Al momento lavora come ricercatore presso l’IRCCS INRCA di Ancona. Nel 2018 ha pubblicato Eccesso di Forma (Arcipelago itaca Edizioni, prefazione di Alessio Alessandrini).
Mem è il suo secondo libro.
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L’opera di Davide Lucantoni si articola in cinque sezioni, ciascuna delle quali, sebbene non titolata, è indicata dalle terzine in esergo che l’autore recupera da Lebensweisheitspielerei, poesia quest’ultima di Wallace Stevens, tratta dalla di lui silloge Il mondo come meditazione.
Il riferimento ai versi del poeta statunitense, unitamente all’analisi del corpus poetico del Nostro, ci inducono a ritenere la versificazione di Lucantoni, resa in forma prevalentemente diegetica, di tipo meditativo-filosofica; ciò in linea con l’estetica del movimento modernista – di cui Stevens fu voce notevolissima – connotata da modalità di ricerche poetiche fondate sull’immaginazione, sullo spessore metaforico del linguaggio, nonché sulla densità e sull’astrattezza dello stesso.
È sul ductus testé accennato che Lucantoni indaga – sempre stando a Stevens – «il senso ordinario delle cose»; e lo fa principiando da accadimenti comuni, id est ordinari, nugali si potrebbe dire (cfr. p. 9, «Appena uscito dal negozio di scarpe / raccoglie le sue buste (…)») che assurgono tuttavia ad occasioni di acute riflessioni sul senso dell’io nel mondo (cfr. p. 19, XXI. Il Mondo); un senso minacciato dalla certezza di doversi ridurre un giorno a «piccoli mucchietti di cenere» (cfr. p. 36).
Il titolo della silloge in commento, Mem, indica la tredicesima lettera dell’alfabeto ebraico; lettera il cui grafema (מ) è associato all’elemento acqua, e quindi al flusso perpetuo di creazione e distruzione in cui si sostanzia ogni ciclo vitale.
Non a caso, la ricorsività vita-morte cui l’acqua allude (l’elemento in parola può generare ma anche annientare, come diffusamente narrato nelle scritture specie veterotestamentarie), è bene evidenziata dal poeta nella lirica di p. 35, ove in un verso si legge che si è «in procinto di nascere, / immersi nell’acqua ma fino alla vita» (cfr. p. 35, vv. 10-11) in altro «che un po’ alla volta si affonda» (cfr. p. 35, v. 7).
Ma ai fini di una più compiuta indagine sull’alone semantico del lemma utilizzato a titolo dell’opera, è opportuno altresì rilevare che il Mem, nella tredicesima carta degli arcani maggiori dei tarocchi, indica la morte, identificata dal Nostro in «quello che scrive con la falce / e raccoglie, falciando, nel segno: / Il luogo, mem (…)» (cfr. p. 64, XIII. La morte, vv. 2-3).
La percezione della finitudine dell’esistenza, in assenza di prospettive salvifiche, muove l’autore ad una profonda quanto frustrata ricerca di senso; un senso che non è rinvenibile nella storia e nel suo progresso tecnologico poiché «Il contapassi appeso alla cintura infatti / non tiene mai conto della direzione ma / fornisce una misura abbastanza accurata / della distanza, del tempo che passa» (cfr. p. 10), quasi a dire che i dispositivi (il contapassi, ad esempio) possono solo quantificare le categorie spazio-temporali o indicare finanche la direzione geografica, ma non certo e non anche quella esistenziale.
È di palmare evidenza che in tale procedere di «passi» (cfr., ibidem) difetti il telos, il fine, lo scopo dell’andare: il presente de L’uomo personificato V (cfr. p. 9) è fatto di inezie («raccoglie le sue buste»; «Procede verso il centro»; «Prosegue», cfr. ibidem) cui tuttavia Lucantoni contrappone ex abrupto – quasi a guisa di sottrazione da un vissuto letargico ed insipido – l’appetizione di chi, nel suo intimo e al di là di ogni routine o cliché, «desidera solo di avverarsi» (cfr. ibidem), in ultima analisi di iniziare a vivere autenticamente.
Ma l’avveramento del sé, la rivendicazione della propria specificità, l’essere «se stesso almeno per sé / (…) a prescindere da chi» (cfr. p. 12), resta nel limbo d’una potenzialità che mai si traduce in atto poiché la realtà è fictio, «qualcosa / che non c’è» (cfr. p. 38), luogo del non-essere, ove, quindi, non è possibile alcuna attualizzazione.
Le liriche, spesso declinate in terza persona singolare, assegnano all’io il ruolo di osservatore esterno e sono connotate dall’anonimato dei soggetti indagati, i quali,
infatti, sono indicati genericamente, come dimostra ad esempio l’uso della forma pronominale indefinita «Qualcuno» (cfr. p. 12, Camerino I); ma v’è di più: non solo i soggetti sono anonimi (cfr. ibidem, «Qualcuno»; «qualcun altro») ma addirittura così privi di peculiarità individuali – e dunque uniformi – da poter essere intercambiabili senza che la realtà si accorga di tale mutamento: «Qualcuno lascia il posto di qualcun altro / che lo occupa» (cfr., ibidem).
Anche quando il poeta dice io, persino in tal caso, assume una posizione che scruta l’accedere senza mai coinvolgersi in esso, come in Comparse I (cfr. p. 13), dove l’affaccendamento del padre «intento a drenare / la fogna che perde (…)» (cfr., ibidem) è fatto osservato a distanza: «lo guardo seduto dal balcone» (cfr., ibidem).
Tale rarefazione dell’io nel mondo, la sua latitanza se così si può dire, è portata alle estreme conseguenze nella lirica di p. 38 ove il Nostro giunge ad affermare «Fuori, in giardino, c’è un mondo di cose / che non ci sono. Io, ad esempio, non ci sono» così aderendo alla filosofia dell’idealismo tedesco che negava il noumeno kantiano, vale a dire l’esistenza d’una realtà esterna al soggetto, per assumerla, essa realtà, unicamente come proiezione psichica della coscienza individuale.
Non si dà in altri termini per Lucantoni un io nel mondo poiché Il Mondo (cfr. p. 19) non esiste, è un nulla, «non significa nulla, / (…) e lo dici così, senza voler dire nulla. (…) / e lo senti, che non significa nulla» (cfr. ibidem).
Le ricadute esistenziali del sistema di pensiero sotteso alle liriche dell’autore – sistema ancora oggi dominante – sono per nulla rassicuranti.
Se infatti il mondo (parola chiave, leitmotiv, fil rouge dell’intera silloge) non è, se l’alterità, l’altro-da-me non esistono se non come elaborazione mentale, vuol dire che ogni individuo è monade ed in quanto tale destinato ad accusare l’isolamento cui è costretto, nonché a percepire la fittizietà dei rapporti interpersonali.
Quanto appena affermato trova riscontro nei versi de L’uomo personificato III (cfr. p. 40) ove expressis verbis si legge «ce ne andremo insieme ognuno / per la propria strada» a voler rappresentare, per mezzo del conflitto dialettico dell’ossimoro, che la communitas («ce ne andremo insieme») non conosce koinonia («ognuno per la propria strada») sicché, il corpo sociale, appare null’altro che una svagata folla di solitudini, dove ognuno è indifferente all’altro, forse persino tra le mura domestiche: «abitiamo così, con l’indifferenza / con cui ci si passa davanti» (cfr. p. 42).
Lucantoni, in Mem, pone in dominante l’equivocità del Mondo: «Indubbiamente si tratta di un equivoco», così il verso incipitario di p. 39.
La sentenza del Nostro sottintende un relativismo ontologico in cui le opzioni interpretative della realtà si equivalgono (si noti che aequivŏcus, deriva da aequus «uguale») e quindi negano l'esistenza di criteri di verità e di valore indipendenti dal soggetto pensante; così come equivoco è il linguaggio, tema introdotto dal poeta mediante l’arguta meditazione sulla polisemia frasale della locuzione di cui al frontespizio d’una lapide «Sarai per sempre vivo nei nostri cuori –» (cfr. p. 20), a seconda che la si intenda direzionata dai parenti al morto (cfr., ibidem) o da questo a quelli.
Se così è, allora, in linea con il pluralismo gnoseologico ipotizzato, più che di Mondo deve parlarsi di Mondi; mondi che si fronteggiano, ma che non sembrano comunicare, come si legge nella lirica IX. L’eremita di p. 41: «Come un mondo a sé di fronte al mondo».
Mondi-persone, monadi sperse, che «continua(no) a spaesare» (cfr. p. 23), «cioè senza / movente» (cfr. ibidem), girovaganti (cfr. p. 24, «girando io a vuoto») poiché ormai orfane di principi ordinatori dell’esistenza, di gerarchie valoriali, di referenti morali.
Davide Lucantoni ci consegna un’opera matura, dalla versificazione piana e dal
registro medio, scevra da manierismi, ove sono sapientemente bilanciati il trobar leu d’una linea diegetica riconoscibile, ed il trobar clus delle implicazioni speculative sottese al corpo testuale, come si conviene – a parere di chi scrive – alla migliore poesia contemporanea.
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Carlo Giacobbi
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Da MEM
L’uomo personificato V
Appena uscito dal negozio di scarpe
raccoglie le sue buste e si rimette in viaggio.
Procede verso il centro della Zona
industriale, dal punto di arrivo. Prosegue
guardando le stelle che cadono e
«tremano in modo inquietante»
desidera solo di avverarsi
e così si esprime
(…)
Il contapassi appeso alla cintura infatti
non tiene mai conto della direzione ma
fornisce una misura abbastanza accurata
della distanza, del tempo che passa
e quanto di sé brucia in un passo,
spesso però conta come passi
anche altri movimenti – tipo
allacciarsi le scarpe, accasciarsi
e morire;
o anche i movimenti degli altri.
XXI. Il Mondo
È anche il suono che la parola mondo
fa nel mondo. Ma non significa nulla,
te ne accorgi mentre lo dici
e lo dici così, senza voler dire nulla.
Tutto qui, pensi solo che in fondo
siamo venuti al mondo
senz’altro posto dove andare;
e lo senti, che non significa nulla, che
quindi non c’è altro da aggiungere
al modo in cui perfino il mondo
si propaga nel mondo svuotandoti
d’un fiato, come per fare spazio.
*
E questa è l’acqua dice uno scherzando
con la bottiglia vuota, per fare il brillante
ma se questa è l’acqua qual è
allora il punto di ebollizione,
lo sport più completo (…)
dice uno scherzando, il punto
è che un po’ alla volta si affonda
anche solo mettendo il naso fuori di casa
anche solo restando qui, come in mare aperto,
o in procinto di nascere,
immersi nell’acqua ma fino alla vita.
(per non sembrare illusioni)
Fuori, in giardino, c’è un mondo di cose
che non ci sono. Io, ad esempio, non ci sono
e non c’è nemmeno il giardino che vedi tu
fuori da quella che immagini sia una stanza
o una casa, che invece è solo qualcosa
da cui si può uscire. E non è la vita.
Vorrei sapere cosa vedi quando dico
«fuori, in giardino».
Lo vedi forse illuminato a giorno, perché
è più facile, su due piedi, che
immaginarlo verde ma all’oscuro di sé.
E io, sapendolo, non lo avrei scritto.
Nessuno lo vedrebbe, d’istinto;
d’altronde, nessuno sano di mente
vedrebbe mai, qui, qualcosa
che non c’è.
XIII. La morte
Si muove per ricomporsi nel suo stesso
disegno, quello che scrive con la falce
e raccoglie, falciando, nel segno:
Il luogo, mem, dove le sono cadute le mani,
come i piedi e la testa tutto ciò che era umano
ora invece è vivo.