Su e da "PER LA CRUNA" di Daniele Piccini. Recensione e scelta dei testi di Norma Stramucci

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Daniele Piccini è nato nel 1972 a Città di Castello. È docente di Filologia della Letteratura Italiana presso l’Università per Stranieri di Perugia. I suoi studi filologici hanno riguardato più che altro la poesia italiana del Trecento, e corposa è la pubblicazione a riguardo, mentre la sua riflessione critica si occupa soprattutto della poesia del Novecento. Oltre che essere redattore della rivista “Poesia”, edita da Crocetti, collabora con “Famiglia Cristiana” e “La lettura” del “Corriere della sera”. I suoi libri di poesia sono:

  • Terra dei voti (Crocetti 2003);
  • Canzoniere scritto solo per amore (Jaca Book 2005);
  • Altra stagione (Aragno 2006);
  • Inizio fine (Crocetti 2013 e 2021);
  • Regni (Manni 2017);
  • Per la cruna (Crocetti 2022).



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                                                           O cara speranza,
                                                           quel giorno sapremo anche noi
                                                           che sei la vita e sei il nulla.                                                           
 
                                                           Cesare Pavese

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                                                           È solo nell’attenderti che sei,
                                                           è solo nel pensarti che dai bene.
                 
                                                           Daniele Piccini
 

 

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Daniele Piccini, Per la cruna, Crocetti 2022
Appunti di lettura di Norma Stramucci
 
     Solamente il contrasto giustifica il fatto che leggendo i versi di Daniele Piccini mi siano venuti alla mente quelli ben più amari di Pavese: Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Sicuramente è accaduto per la presenza in essa del lemma morte, frequente in Per la cruna. Indubbiamente, per entrambi la morte non coincide solamente con l’attimo che mette fine alla vita, permeandone altresì ogni istante, ma la somiglianza finisce qui anche perché non c’è speranza, in Pavese; non c’è un senso: nel gorgo si scenderà muti, il labbro non si è dischiuso e nessuna parola è stata ascoltata.
     Ben diversa la condizione del poeta Piccini sorretto da una fede idealistica nel bene: “risaperne il bene” (p. 20); “volere il bene” (p. 26); “nell’attesa del bene” (p. 27); “è solo nel pensarti che dai bene” (p. 31). È proprio nell’attesa del bene che la morte è annullata: “Così, così ritornerà compiuta / l’attesa fatta di tutte le crune, / il sangue sparso, il diadema di morte / che non ha più potere”.
     E questa è la sconfitta che potremmo definire della propria, oltre che di quella di tutti gli altri, naturalmente, morte, quella per la quale il poeta prova “anelito alla pura sede della vita” (p. 79), quella per la quale in nome dell’amore scrive lo stupendo verso “per me si va chi vuol andar per pace” (p. 62).
     Poi c’è la sconfitta, ma questa solamente parziale, di un diverso tipo di morte, quella che fa soffrire, il peso della mancanza dei propri cari, del padre soprattutto. D’altra parte è proprio questa la morte che fa più male, quella che “punge da ogni lato” (p. 68). Comunque sconfitta, anche se a costo di fatica (non è semplice passare per la cruna) perché la memoria, anche se per un solo istante, può far rivivere qualche particolare del passato: “I nomi de cavalli, l’elegante / cavaliere che ride, / ride per un istante / e buca e rompe il telo della morte”. Sconfitta qui parziale perché tali attimi “presto si ributtano / nel fiume delle particelle al mare” (p. 51).
     Siamo insomma agli antipodi del nulla di Pavese. Viene in mente Quest’è l’ora in cui nulla / può accadere (Lo steddazzu). Soprattutto per la ripetuta presenza in questo libro del lemma creato, come evidenziato da Umberto Piersanti durante la presentazione a Recanati lo scorso 27 agosto, e dei suoi derivati. Il creato non ha niente a che fare con quanto non esiste e ben si accompagna con la continua ricorrenza di luce, lampi, lumi, aria, fuoco; tant’è che tra gli insetti, i soli presenti – se non sbaglio – sono le lucciole. Di questa poetica rappresentativa mi sembra la lirica n. XLVIII a p. 59: […] “Ma in questi fuochi che arsero io vedo / aperture che durano, covi di natività, fiati d’aria / che gonfiano la bolla / vetrosa del creato, / che non è solo qui, questo che geme, / ma anche altro, che solo comincia”.
     Il criterio costruttivo del libro ci presenta liriche che certo vivono anche nella loro singolarità ma che si completano all’interno del poema frammentato. Il metro che Piccini preferisce è indubbiamente l’endecasillabo. Si prenda ad esempio la prima lirica, a p. 9. La prima strofa ne presenta cinque, inframezzati da un settenario; la seconda uno, seguito da due settenari e la terza sei, per concludere con un settenario, più un endecasillabo finale. Quello che però è interessante notare, oltre al fatto che si richiamano i suoni morbidi o meno, e che Piccini non disdegna anafore e ripetizioni, è la collocazione sia del primo ictus in ciascuno e sia la diversità degli emistichi.
     La perentorietà di quanto il poeta dichiara: “Essere amati è il grande privilegio / delle creature” non è data solo dall’essere questo il verso iniziale del libro, ma anche da quel primo accento sulla e di essere. Creatura lui stesso, Piccini. Tant’è che tramite la rievocazione pasoliniana ritroviamo anche San Francesco nel libro, ma poeta, oltreché creatura: “Vorrei che, perso il nome, solo il canto / si salvasse, anonimo e fedele, / come parte del mondo, come lume / che l’abita da sempre. (p. 45).

 

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Da PER LA CRUNA

 

 

I

Essere amati è il grande privilegio
delle creature: anche quando si muovono
nella notte franosa, a basso lume,
qualcuno li conosce.
Qualcuno li contiene come un fiume,
anche se loro ignorano, incoscienti.
 
Così si perdono lontani e vanno
ma  non escono mai
da quel radar inquieto.
 
Camere illuminate nelle notti.
Ne ho viste nelle città più remote.
Ognuna brilla come stella accesa.
La sua fornace manda lampi chiari.
Rivedo la creatura a cui pensavo,
le stelle si infittivano la prima
volta allo sguardo semplice.
 
Cosa sarebbe stato, non sapevo.
 
 

XVII
 
Di notte, nella forra della notte
il mondo nuovo spunta, ma insidiato.
Vedi atti perduti
confusi nella somma,
giri di tempo immemori,
spuntoni di un inizio primavera
invaso dalle aeree fioriture
prima che piombi noia.
Vedi l’ignaro offrirsi
prima che sia, per calcolo o paura,
la mano tratta indietro,
vedi l’atto che genera, potente,
nell’attesa del bene
e l’animale libero
e l’estate che spunta col suo muso
tra le pieghe del manto
la prima volta, l’unica, divina.
Così, così ritornerà compiuta
l’attesa fatta di tutte le crune,
il sangue sparso, il diadema di morte
che non ha più potere.
 
 
XL
 
I nomi dei cavalli molto amati,
Be Fair o Garibaldi,
i nomi dati da lui o trovati,
i giorni nelle passeggiate in rovi
e rovesci di pioggia, quando il tempo
si rimetteva dopo:
dove si troveranno?
O come sono stati e poi dissolti,
se nella mente durano,
se li ritiene la memoria? Attimi
che presto si ributtano
nel fiume delle particelle al mare,
al mare in movimento.
I nomi dei cavalli, l’elegante
cavaliere che ride,
ride per un istante
e buca e rompe il telo della morte.
 
 
XLVIII
 
Del disamore non sai mai che fare,
quello che affiora insonne, come un sogno.
Di tutto quanto che non ci fu dato.
Ma in quei fuochi che arsero io vedo
aperture che durano,
covi di natività, fiati d’aria
che gonfiano la bolla
vetrosa del creato,
che non è solo qui, questo che geme,
ma anche altro, che solo comincia.
 
 
LXVII
 
Oltre la fossa del mare del pianto
mi riportava una voce d’altura
che risaliva il blu. Come uccelletti,
anime liberate si riuniscono
portate da correnti ascensionali,
formazioni di punti neri in volo.
Così ne vidi a sera sulla valle
intorno ai campanili fare stormo,
obbedire a un richiamo.
Vola più in alto qualcuno assetato
di essere presto al nido dopo l’ora
ebbra del volo nell’aria infinita.
Così anch’io – pensavo: riportato
dall’istinto dell’ala
verso la pura sede della vita.