Su e da "SILENZIO, SOGLIA D'ACQUA" di Loriana d'Ari. Recensione di Carlo Giacobbi.

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Loriana d’Ari vive a Genova, dove lavora come psicoterapeuta.
Ha pubblicato su riviste e blog letterari e ricevuto riconoscimenti e segnalazioni in vari premi, tra cui “Ossi di seppia” e “Bologna in lettere”.
Silenzio, soglia d'acqua (Arcipelago itaca 2021), che è la sua opera prima, è stata anche segnalata al premio “Lorenzo Montano”.

 

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          Con l’opera in commento, ascrivibile al genere del poemetto, la d’Ari sembra affidare la sua dizione – resa per fragmenta sine titulo – ad un soggetto posto in condizione liminare, vale a dire su di una «soglia» – come enunciato nel titolo – che pertiene alla zona psichica del preconscio, del Vorbewusste di freudiana memoria.
Un limine dai confini incerti, liquidi o mobili al pari dell’ «acqua», dove la materia ctonia dell’inconscio si fa oggetto d’una percettività che oscilla tra assopimenti e labili recuperi di lucidità.
          Il dettato poetico, spesso franto e straniato, che alterna in rapida successione il sublime ed il terribile, il cielo e l’abisso (cfr. p. 15, canto il silenzio d’edera preghiera» vs «spira dentata d’artiglio che affonda») traduce lo stato di dormiveglia inquieto in cui versa l’io lirico; questi, chiunque sia o possa essere, patisce un senso d’irrealtà (cfr. p. 19, «il paesaggio è un falso»); dubita delle categorie spazio-temporali (cfr. p. 20, «questa la stanza o un’altra, questa o un’altra / l’ora»); si percepisce quasi amnèsico nel tentativo di appuntare con «carta e matita» (cfr. ibidem) gli scampoli della sua «scarnificata memoria» (cfr. ibidem); subisce l’insana fascinazione di tremendi allettamenti (cfr. «torvo il riflesso che ammicca a quel / davanzale»; «lasciarsi / abitare da un’altra qualsiasi morte incruenta», ibidem).
          Il corpus lirico è dominato dall’ombra d’una minaccia imminente, dalla suspense d’una probabilità di danno (cfr. p. 25, «questo nodo scorsoio che stringo / e allento»; p. 47, «il piede che sfiora / lo strapiombo»; p. 59, il «soffio» cui stanno «l’antilope / e la tigre, la grandine e la rosa») tanto da potersi affermare che, la voce incaricata della narratio, veicoli uno stato di precarietà immanente, di horror vacui dati i caeca pericula di rovina o precipizio incombenti sul transito dell’esistenza e, al contempo, di amor vacui, quasi l’io fosse sul punto di librarsi nello spazio aereo (cfr. p. 52, «abito l’orlo del salto») per dolcemente cavalcare «nel vento la caduta» (cfr. p. 49).
          Le atmosfere umbratili cui s’è fatto cenno, sono peraltro confermate dalle scelte lessico-foniche praticate dalla Nostra, in larga parte evocative d’una cupezza tanto  semantica quanto, appunto, timbrica. Si leggano in tal senso sintagmi e/o locuzioni quali «un ribollire ai bordi» (cfr. p. 15); «buco» (cfr. p. 19); «torvo il riflesso» (cfr. p. 20); «via dalla bocca uno a uno» (cfr. p. 22); «angoli bui» (cfr. p. 35); «si chiude» (cfr. p. 46); «che schiudono» (cfr. p. 48); lessemi, quelli enunciati, connotati dalla reiterazione di vocali semichiuse o chiuse, allitteranti in o ed in u, coerenti con il cromatismo chiaroscurale che informa la silloge.
          Fermo quanto sopra, tuttavia, saremmo lontani dal vero se ci limitassimo a qualificare la poetica della d’Ari – sia pure latu sensu – crepuscolare. L’io lirico cerca comunque una connessione con l’alterità per mezzo d’una preghiera che, sebbene colloquio laico, è capace di attingere alle tracce mnèstiche d’una storia universale, anche remotissima, di cui l’autrice è in qualche modo parte e che avverte come propria: «sono nostri questi morti» (cfr. p. 23); «lasciano orme gli scomparsi (…) sappiamo di loro» (cfr. p. 28); estinti, dunque, di cui si vuole conservare il ricordo (cfr. p. 59, «io prego / e non dimentico») forse gli exempla vitae, per trarre maggiore consapevolezza sulle contraddizioni dell’umano (cfr. p. 36, «chi può dire cosa è umano?»), sempre in bilico tra bestialità e superomismo. Il richiamo al «reticolato» (cfr. p. 32), ai «cingolati / arsi» (cfr. ibidem), alle «finestre scheggiate» (cfr. ibidem), sembra vòlto al recupero d’una memoria che non rimuova quanto di orrendo è accaduto affinché non si ripeta.
          Non è fuori luogo in questa sede accostare la poetica di Loriana d’Ari al topos della «soglia» di cui tratta Bevilacqua nell’introduzione a «Di soglia in soglia» di Paul Celan. E ciò non solo e non tanto per l’evidente richiamo terminologico contenuto nel titolo dell’opera in commento, quanto perché, i versi della Nostra, sembrano recuperare 
la cifra stilistica – onirica, surreale ed oscura – del poeta bucovino, nonché le tematiche dello stesso, sempre orientate a restituire voce e presenza ai sommersi, agli «scomparsi» che pure abitano le liriche dell’autrice: «Parla anche tu, / parla per ultimo, / di’ il tuo pensiero. / Parla - / (…) / Da’ anche senso al tuo pensiero: / dagli ombra» (cfr. Paul Celan, Parla anche tu da Di soglia in soglia, Einaudi, 1996, p. 97).
          La d’Ari cerca un comunque un varco, un’apertura che conduca ad una ritrovata umanità, ad un ambito del vivere in cui sia dato spazio alla grazia (all’atto del cullare – cfr. p. 19, «culliamo»; la «culla d’aria» che ospita la foglia – cfr. p. 24), alla quiete (cfr. p. 21, «tu dormi, e hai il respiro calmo / degli abeti»), alla iucundĭtas (cfr. p. 22, «ha danzato tutta la notte»), all’umiltà del chiedere venia (cfr. p. 25, «perdona voce bianca (…) perdona verde linfa»), alla dolcezza dell’amore che resta permanente «mistero della cosa viva» (cfr. p. 30), un dire «per sempre a presto» (cfr. ibidem) nonostante la morte, nonostante Eros e Thanatos si confondano come «amanti scheletriti nell’amplesso» (cfr. p. 33).

                                                                                                                                         Carlo Giacobbi

 

 

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Da SILENZIO, SOGLIA D’ACQUA

 

 

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canto il silenzio d’edera preghiera
spira dentata d’artiglio che affonda
sbalza la mappa, l’intaglio preciso
su questo corpo di scogliera franta
un ribollire ai bordi, una scampata
emorragia: tocca là dove brucia
non chiarire, non dire

 

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questa la stanza o un’altra, questa o un’altra
l’ora, carta e matita a scarnificata memoria.
torvo il riflesso che ammicca a quel
davanzale, lasciarsi
abitare da un’altra qualsiasi morte incruenta

 

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lasciano orme gli scomparsi
gravide di buio. sono gli arsi
vivi, cantano l’eco di pupille
implose. sappiamo di loro
e il corpo rimargina. ma
se manca il corpo?

 

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tutta la luce qui sale dal pozzo
luna d’inchiostro e pareti di muschio
fiocchi di rame che sfaldano al fondo
di amanti scheletriti nell’amplesso.
qui dove niente, qui dove nessuno
nevica ovunque si posi lo sguardo

 

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è saggezza di funambolo: troppo vero spezza il filo.
e barcolli in barbagli, cieco l’occhio che crede
svelto il piede che sfiora
lo strapiombo di essere intera

 

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ora che più chiara è questa notte
una penombra di morbidi e saldi
contorni, lasciami aperta
ai volti di un volto soltanto.
stanno a un soffio l’antilope
e la tigre, la grandine e la rosa.
che continuino, io prego
e non dimentico.