Su e da "SMENTIRE IL BIANCO" di Silvia Patrizio. Saggio e scelta dei testi a cura di Francesca Mazzotta
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Silvia Patrizio è nata nel 1981 a Pavia.
Tutte le sue passioni stanno nei dintorni della poesia.
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Sul primo libro di Silvia Patrizio, Smentire il bianco:
il sacrificio di un colore franco
se pareba boves
alba pratalia araba
et albo versorio teneba
et negro semen seminaba
indovinello veronese
Non è dato sapere se il bianco sia il colore del vuoto («di tutti i colori il più forte / il più indelebile», citando Sereni). Quello che leggiamo fin dall’incipit di Smentire il bianco (appena uscito per Arcipelago Itaca), è che il titolo è “ri-spettato” immediatamente – e infatti, il primo colore che incontra il lettore è l’opposto del bianco, e si annida nell’aggettivo che chiude il primo verso, «annerito»:
Il sapore è quotidiano, del cibo annerito
sui fornelli, e un sollievo di torta alle mele.
Le parole, quando sono soppesate millimetricamente nella poesia, parlano. E allora è anche più facile notare che in questo incipit il colore è già sapore, già introiettato nel corpo. Già fatto spazio scenico in cui il corpo, ricorsivamente, si muove nella tassonomia di oggetti precisi e forse sacri: forse l’ombra di un lampadario fedele al lampadario stesso che la proietta, uno specchio, un tavolo che espone libri “rimproverati”, un vero e proprio «campionario»:
lo specchio il lampadario che fa scudo
del suo doppio e quel tango inappagato
che ritorna, compromesso a ogni curva
come un respiro ribattuto…
si percepisce quasi il suono antico delle dita che rapidamente battono a macchina, e ritornano, ricominciano (molto pertinente, a questo proposito, la notazione Andrea De Alberti nello scritto introduttivo, sull’emblematicità del prefisso ri-, non solo indice di una ripetizione, ma anche di una risignificazione, nonché dell’azione parasintetica propria dei verbi “del divenire”: «refrigerare» e «riscaldare» sono i due esempi che troviamo nell’introduzione).
La forza di questa poesia, così iniziale e tanto più, per questo, “iniziatica”, sta forse nell’intreccio violentemente preciso che intesse un senso di perdita alla maglia concreta del quotidiano: così, non è più spontaneo il meccanismo di «affondare nel piatto le date importanti», mentre non si resiste alla consolazione abituale di continuare a «inventare / un balcone per la casa di viale dei Tigli» (p. 19).
Esiste una zona intermedia tra il bianco e il nero, forse, nella «mattina pomeriggio» di un altro testo che, non a caso, segna il luogo di una forte dichiarazione di presenza dell’io: il testo in questione (p. 21) ripete regolarmente il verso «io sono fatta invece», (vv. 1, 5, su un totale di dieci versi), come fosse il battito di un metronomo (o della stessa macchina da scrivere) al cui rintocco la voce cerca di sintonizzarsi.
Malattia demielinizzante infiammatoria multifocale
Del Sistema Nervoso Centrale,
Disturbo borderline di personalità.
Io sono fatta invece
di questo non scrivere giorno per giorno
degli inciampi del tempo
delle crepe di verde
che incrinano il mio nome.
Io sono fatta invece
e sul fondo la polvere
di una mattina pomeriggio
quando le pagine si imbrattano
col pane del giorno prima…
La dichiarazione si situa in un luogo testuale la cui epigrafe centra, “invece”, l’illustrazione del sintomo borderline, per antonomasia il sintomo della scissione/divisione identitaria. È nella «mattina pomeriggio», forse allora, che si tenta di mediare gli opposti, di abitare una zona franca in cui potere riscattarsi e trovare un respiro, un linguaggio.
Quella di Silvia Patrizio (che ha già un nome eloquente, latino, silvano e possente), è una voce che sembra davvero sondare il vigore di una sacralità - non sappiamo dire con certezza cosa sia il bianco, qui, né che cosa questo colore tanto attraente e spaesante, denoti: ma un’indicazione, forse, la possiamo trovare proprio nei “dintorni” (altra spia sereniana, un autore che, comunque, l’autrice non dichiara esplicitamente) della poesia. Leggiamo infatti un doppio uso di questo lemma: nella stringata nota biografica sulla quarta di copertina, «tutte le sue passioni [di Silvia Patrizio] stanno nei dintorni della poesia», e nel titolo della nota dell’autrice (il paratesto, la cornice), Nei dintorni del bianco. Che questo colore stia allora a rappresentare la poesia? La sua invisibilità e forza di sottrarsi al controllo visivo e prensile?
Le due sezioni che compongono il libro si intitolano Una stanza bianca, dopo il treno e Col digiuno negli occhi.
Gli occhi sembrano affamati perché non vedono, perché non distinguono: dopo il treno (metafora di un percorso tracciato con fatica e con pazienza - in modo percepibile dal lettore, almeno il percorso di attesa che conduce Silvia a questo suo primo esordio già molto maturo), si staglia un paesaggio del corpo che cerca di auto-tracciarsi in una serie di gesti, addomesticati con altrettanta pazienza. «Ci sono gesti che bisogna continuare a fare» reciterà coerentemente l’epigrafe dell’ultima sezione di Smentire il bianco (da Il mondo è vedovo di Paola Turroni).
Seguono a quelli un poco attraversati, alcuni testi, da questo punto di vista, emblematici.
L’autrice riporta, sotto forma di vera e propria lista (dove l’elenco si esibisce nell’accumulo di trattini, da “lista della spesa” vera e propria), alcuni imperativi che occorrono per far sì che la memoria persista. Del dittico sulla memoria (La persistenza della memoria, 1 e La persistenza della memoria, 2, pp. 22-23), colpiscono in particolare i punti «- interrogare i sintomi del buio», «- fermarsi al lato destro di un inganno» (perché il destro?), «- la competenza del gallo / che in ogni alba ripristina il tempo», «- quei cordiali dirsi addio / di una stazione di paese»: forse la grande poesia sta qui, nel controllo e nel mantenimento di un’energia che, seppure prema fortemente sotto la pelle, riesce a emergere come un cordiale «dirsi addio», o come il «lato» di un «inganno» (quasi si trattasse del margine di un vicolo). Non a caso, leggo, l’autrice si dedica alla pratica dello yoga, forse la disciplina in cui meglio si esprime il talento di dimenticarsi di sé nello stesso tempo in cui si mantiene salda la posizione raggiunta, con un tendersi di muscoli molto allenati, e fedeli a un punto fissato molto attentamente - scelto dall’occhio nello spazio e messo a fuoco.
L’elenco, così come la scelta formale della “serie” sembra proprio un altro chiaro sintomo di questa predisposizione a registrare i segni, veri e propri “a capo” di una riscrittura che avviene col corpo-lingua mentre si incunea nello spazio, dal micro al macrocosmico.
L’operazione percorre le pagine con tenacia mentre detta il ritmo di una simbiosi dell’io-anatomico con la forma del mondo, fatta di grotte («fare grotta con le mani», p. 25), e di aghi di pino adoperati per sentirsi più vivi, come dandosi un pizzicotto («pungere la carne con aghi di pino», ancora da p. 25); ancora avanti, più “linguisticamente”, vediamo poi il cosmo ricambiare il gesto, mentre si coniuga in una «retorica di stelle» (nella poesia a p. 27), vediamo allora passare (proiettarsi, di nuovo) sui muri «un catalogo di ombre» (p. 31), e le virgole sprofondare in uno scavo “deviante” che acuisce e drammatizza, forse spalanca un vuoto, nella forma grammaticale dell’inciso («la virgola / scavata sull’inciso», p. 32). Il tiro si riaggiusta ancora dopo, quando perdonare equivale a capire quanto «basta trovarsi a essere / vento, per coprire le fronde / di ruoli inattesi» (p. 35).
In due luoghi del volume sembra emergere un altro referente del bianco – se il colore “tinge” il paratesto, come già osservato e proposto, ce n’è uno, però, molto meglio dichiarato dall’autrice, nella scelta di una fonte letteraria; nel primo esergo, da un passo di Francesca Mannocchi, leggiamo infatti: «bianco è il colore del danno». Si aggiunge, così, un ulteriore elemento imprendibile che si integra alla non-intuibilità della poesia. Il secondo luogo (p. 26) è l’unico corsivo del primo momento della sezione iniziale (Una stanza bianca, dopo il treno):
(nel diario tra parentesi aggiungevo
il blues è un suono, un’intenzione
l’errore è nel respiro).
Sembra quasi un “sottovoce”, l’appunto degli ultimi due versi, che, già isolati tra parentesi, ha l’effetto di sotterrarli un poco ancora, senza rinunciare al tono assertivo (il nero su bianco rimane): è il respiro il colpevole, ciò che può virare/mutare/inquinare (?) l’intenzione salda. Il respiro, Pranayama, nella tecnica yogica: attraverso il controllo delle posture (asana), è il tramite della dialettica/equilibrio tra l’espandere (Ayama) e il controllare (Prana).
Il respiro sembra allora un’altra chiave, un nervo abbastanza centrale, di questa scrittura: oltre all’eco dalla pratica dello yoga, ha forse un’origine qui altrettanto significativa, ed è quella etimologica dal latino (il «nuovo soffio», declinabile come tenacia), molto debitrice al prefisso, «ri-».
La lingua è forse ‘eterna’ anche per il gesto di riscrittura che ne accompagna il movimento nel tempo, ovvero di re-invenzione, di ri-significazione, nuovo battesimo: rinascita. Sono convinta che quando dichiariamo che essa varia il suo semantema di epoca in epoca (stando dietro ai diversi contesti storico-sociali, antropologici, culturali), bisognerebbe forse ricordarsi che il suo evolversi diacronico non passa tanto per un ‘volta-pagina’ ignaro di quella precedente: la risemantizzazione integra, aggiunge. È proprio questa la dinamica che regola il rapporto tra vecchio e nuovo, per come (tra gli altri) la espone T.S. Eliot (altra fonte, forse non a caso, dichiarata dalla poetessa nella nota finale, che ne riprende la Waste Land) nel celebre saggio Tradition and Individual Talent. Se Dante scriveva «gentile» e «onesta» nel celebre sonetto della Vita Nova, intendendo la nobiltà di spirito e il decoro della donna, insomma, ne permane una traccia inossidabile nei significati odierni più stratificati che attribuiamo agli stessi aggettivi.
A questo proposito, Silvia Patrizio mi sembra un buon esempio di una fondamentale predisposizione, che stiamo perdendo, e che si potrebbe riassumere nel gesto di un disvelamento che avviene per gradi, poco a poco, senza osare, o meglio osando ma piano, nel rispetto del centimetro (nel rispetto del tempo, del proprio ritmo e di quello del mondo, mentre ci si allena ad articolare una nuova lingua).
Uno dei testi più belli dimostra molto bene, a mio avviso, questo religioso processo:
trattiene solo un filo
degli inverni mai contati
la sottile disciplina dell’acqua
che goccia a goccia
smentisce la roccia.
Nell’ultimo verso, inoltre, compare il verbo che nel titolo del volume affianca il bianco: «smentisce». Si chiarisce ulteriormente, “goccia a goccia” e sempre meglio, l’oggetto di questa indagine poetica.
Il danno, la poesia, la roccia: la colpa, l’amore, il dolore?
«La poesia va dove vuole», ha scritto Luciano Anceschi. E forse questa sua affermazione (contenuta nella Prefazione a Linea lombarda, 1952) la si potrebbe estendere ai termini di quest’ultima equazione.
“Va dove vuole” - e se la lingua è “eterna” perché si muove mentre rinasce lungo una fibra sottile e allo stesso tempo quasi impossibile da spezzare, la poesia è allora contemporanea perché è nel tempo e nell’individuo (il poeta): ha il dono di sentire mentre, simultaneamente, si dispiega. Sa essere e abbracciare disperdendosi, asse fermo e vento, stabilità del punto e immanenza del bianco.
Ma come avviene che la poesia sia contemporanea, concretamente? Chissà, probabilmente in mille modi, ma forse (ed è ciò che conta qui, nell’analisi di Smentire il bianco) anche nel prestito della propria voce singola e definita, ad altre voci e personaggi “pluri-dimensionali” (mitici, prodotti dal pensiero e dall’arte).
Il poemetto finale, Col digiuno negli occhi, mantiene fortissimo il tenore delle pagine che lo precedono, proprio (credo) grazie a questa scelta: di prestare, di diramare, con un fine conoscitivo e speranzoso (quello che appartiene alla vera poesia - che non si chiude, non si ripiega, ma guarda/ascolta); di canalizzare in un gruppo di rami vocali (personaggi, corpi di parole/mythos), la matrice, cioè la propria voce, poliedrica e radicale.
Su quest’ultima definitiva sezione, rimando alla postfazione molto attenta di Davide Ferrari. Mi preme solo soffermarmi brevemente sui nomi scelti, ovvero sulla simmetria costruita dalla poetessa in questo suo congedo drammaturgico, sapiente e sapienziale, dal lettore: i personaggi sono Maria Maddalena, Cassandra, Ipazia, Medea, Penelope, cinque come le dita di una mano. Il sacro, il profetico, il cielo, la passione, l’attesa, con un maggiore spazio (per la forma del poemetto) riservato a Medea e a Penelope. Forse il bianco e il nero, questa Medea e questa Penelope, opposti tra i quali è più impegnativo trovare una partitura mediana, più faticoso mappare una regione franca, mattinale e insieme pomeridiana, tra la luce accecante (bianca) e la notte più nera.
Restituire (i figli al mondo, come si legge nella poesia a p. 42) è dimezzare, sembra ribadire Silvia.
Anche scrivere è farsi a metà, è venire alla luce e, in questo senso, auto-sottrarsi: un sacrificio.
Francesca Mazzotta
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Da SMENTIRE IL BIANCO (Arcipelago itaca gennaio 2023)
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La persistenza della memoria, 1
– riordinare il ripiano dei reperti
– esigere fedeltà dalle parole
– avvertirsi di passaggio
coi vestiti nelle valigie di mesi
– interrogare i sintomi del buio
– pensare di chiamarla la “non più mano”
per la definitiva cessazione funzionale
– predire le soglie ancora da varcare
– fermarsi al lato destro di un inganno
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trattiene solo un filo
degli inverni mai contati
la sottile disciplina dell’acqua
che goccia a goccia
smentisce la roccia.
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Come ricavare dal fango
il senso corale del danno?
Ci si addestra a enumerare
i personaggi della storia:
la matta l’adultera la vedova
la madre la croce l’esercito
di girasoli in marcia compatta
a rinominare la luce.
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Immagina nell’ordine:
una donna il corteo la ferocia
un dialetto aspro come scoglio
somma la solitudine
e una madre compromessa
immagina una parola:
infanticidio
gli elementi dispongono il giudizio
l’esattezza della diagnosi.
Maria Maddalena
Non potevo muovermi
senza che il suo sguardo strofinasse
la mia ombra. Ho deciso di seguirlo
corteggiami pensavo
confondendo il suo volto con l’innocenza
di dio.
Di chi è il sacrificio
quando non sai se restare è coraggio
o una gioia malriposta cosa
significa amare
se la sua vita è tutto e la tua
un accanto.
È la sua guerra
ad avermi cambiata: la violenza
di oltrepassare la cruna
e darmi intera al suo progetto –
c’è un ordine, in ogni morire, che conquista.
Medea
Poemetto in voci
[…]
Parla la paralisi
Passeranno
anche questi risvegli senza corpo
fatti di stoffa
come certi ricami malriusciti
che si sfaldano piano.
Ti parlerò di me,
delle briciole nascoste
per la paura di tornare
e rifarò il letto
al primo appuntamento
per non rischiare tracce
che decidano per noi.
[…]
Ophelia
[…]
II Scena
Il lago è tra le tempie.
È la quiete che allenta i cardini
e fa spazio al pensiero. Gli steli
confermano le rive in un disordine
di spessi fruscii. Ogni cosa
si compie dentro
l’intenzione di una forma:
il suo incedere lento,
un viso su cui lento
il mondo impoverisce.
[…]