Su e da "SULLA RIVA DEI CORPI E DELLE ANIME" di Gabriele Galloni. Con la nota del risvolto di copertina di Alessandro Moscè

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Gabriele Galloni è nato nel 1995 a Roma, dove ha vissuto e dove è improvvisamente e prematuramente scomparso il 7 settembre del 2020.
Ha pubblicato raccolte di versi (Slittamenti, Augh Edizioni 2017; In che luce cadranno, RP Libri 2018; Creatura breve, Ensemble 2018; L’estate del mondo, Marco Saya 2019), versi e prose (La luna sulle case popolari, ChiPiùNeArt Edizioni 2021, opera uscita postuma) e racconti (Sonno giapponese, Italic 2019).
Ha curato, per la rivista “Pangea”, la rubrica Cronache dalla fine - dodici conversazioni con altrettanti malati terminali.
Nel 2018 ha fondato la rivista online “Inverso”.
Le sue poesie sono apparse in numerosi lit-blog e siti italiani e sono state tradotte in spagnolo e in rumeno.
Nel maggio del 2023 è uscito, per Crocetti, Sulla riva dei corpi e delle anime, con l’introduzione di Alessandro Moscè.

 

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Il poeta, nella sua affilata percezione, affronta a viso aperto il dualismo vita/morte. Quest’ultima pulsa nelle vene come in un continuo epilogo, in un verso caustico, graffiante, tetragono. Gabriele Galloni ha dimestichezza con la finitudine umana, ma non entra mai in una dimensione sociale di condanna, in una posizione ideologica. Ogni poesia è calibrata, limpida, nell’imprevedibilità dei contrasti di un tempo irreprensibile che si riproduce nei particolari. Il tema della mortalità ha sullo sfondo il luogo istantaneo che si tramuta in uno spazio sulla riva dei corpi e delle anime. Sia perché il dolore è tradotto in scrittura, sia perché l’assenza intravede un amore ancora avvertito nella sacertà. Questa poesia emette luce che circola nel mistero della creazione. È una sorgente che avvicina e allontana: dai bagliori emergono le cicatrici e spunta il profilo di un orizzonte, di un’avventura nel realismo dantesco. Gabriele Galloni sfida la precarietà umana attraverso il suo prezioso recinto poetico.

                                                                                                                                           Alessandro Moscè

 

 

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Da SULLA RIVA DEI CORPI E DELLE ANIME

 

Da SLITTAMENTI

 

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È giù negli interstizi di
tempo tra i minimi
e i massimi che accade
l’irreparabile.

 

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Guardammo a lungo in mezzo al crepitare
del falò i tuoi quaderni che bruciavano,
la carta farsi fumo, farsi aria

irrespirabile: più della storia
tra quelle pagine. Sentimmo urlare
il tuo nome, poi il mio. Ci richiamavano
al silenzio da un oltretomba a caso.

 

Da IN CHE LUCE CADRANNO

 

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I morti tentano di consolarci
ma il loro tentativo è incomprensibile:
sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile
della conversazione. Sanno amarci
con una mano – e l’altra all’Invisibile.

 

*
Lecito chiedersi come resuscitino
i morti e quale voce verrà data loro
in dono. E quale lingua e che corpo.
I morti hanno la febbre. Non è tempo.

 

*
I morti continuano a porsi
le stesse domande dei vivi:
rimangono i corsi e i ricorsi
del vivere identici sulle
due rive. In che luce cadranno
tornati alle cellule.

 

Da CREATURA BREVE


Fabula

Volle provare la dissoluzione
della carne. Provarla con coscienza.
Rendersi terra fertile, ma senza
morire; vivo senza soluzione.

Pro Verbis #2

Su questa terra secca che si sbriciola
a ogni minima impronta di passaggio
vivente; a dirci che un nuovo passaggio
(sia pure lontanissimo) è possibile.

Fabula

Sognò intera la Rosa dei Beati.
Era l’insieme di tutti gli oggetti
(lampade, guanti, lame, scendiletti)
che ci portiamo dietro da una vita
e che dimentichiamo puntualmente
lungo la strada; in discesa o in salita.

 

Da L’ESTATE DEL MONDO

 

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È in questa vita un’altra vita nuova
e in questo corpo un altro corpo ancora.

Mi segui fino al bagnasciuga e indietro; affiora
a pelo d’acqua una bottiglia vuota.
È notte, ma la spiaggia è affollatissima;
così che mi è difficile ascoltarti.

Raggiungiamo le dune. C’è un sentiero
dietro il canneto; porta
alla vecchia fabbrica di sapone.
La luce dei falò qui non arriva-
e nemmeno una voce.

Ho tredici anni. E della voce adesso
saprò tutto quello che c’è da sapere; da fare.

Ché in questa vita è un’altra vita nuova
e in ogni corpo un altro corpo ancora.

 

*
Le case bianche a perdita
d’occhio; le cancellate
arrugginite. A sfondo

di cartone, sfrondate
chiome di nubi simulano
l’estate del mondo.

 

*
Eccoci finalmente all’ultimissima
riva del mondo; vi arriviamo nudi
via terra. Aspetteremo qui la fine
ora che niente abbiamo più alle spalle;
sarà la nostra vita come l’occhio
di un dio cieco – la vita come questo
mare che non sprofonda mai in abisso.

Soltanto c’è da definire i nomi
che nuovi diamo alle cose e ai viventi.
Perché di questo molto ci appartiene;
ci apparterrà per sempre. Dammi un nome –
fai sì che duri in questo e in altri eoni.
Un nome; io farò con te lo stesso.

Non costruiremo mai nessuna casa;
dormiremo tra impronta e impronta sulla
sabbia, lasciando che la pelle faccia
di sé insanabile ferita giorno
dopo giorno. E così via fino all’ultimo
ramo del tempo; fino al giorno in cui
concessa ci sarà un’assoluzione

definitiva da ogni corpo a corpo.

 

Da LA LUNA SULLE CASE POPOLARI


Vergine della Magliana

Immobile riposa
fra i ceri e gli asfodeli
appassiti, la sposa
delle stelle e dei cieli.

Pudico il manto azzurro
le copre la brunita
carne, un bacio, un sussurro
argentino, la vita.

Paesaggio suburbano

Via Ventimiglia, deserti i cortili
Sperduti nella sera malinconica;
Le case popolari. Strano suono
Il trotto delle foglie morte in corsa.
Il cuore soffocato, i sogni vili.