Da "TRA UN NIENTE E UNA MENZOGNA" di Nicola Romano. Con la Prefazione di Elio Pecora

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Nicola Romano, giornalista pubblicista, vive a Palermo, dove è nato nel 1946. Con opere edite ed inedite è risultato vincitore di diversi concorsi nazionali di poesia. Alcuni suoi testi hanno trovato traduzione in esperanto e su riviste spagnole, irlandesi e romene. È presente in “Fahrenheit” di Rai Radio 3. Attualmente dirige la Collana di poesia dell’editrice “Spazio Cultura” di Palermo. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: I faraglioni della mente (1983), Amori con la luna (prefazione di Bent Parodi, 1985), Tonfi (1986), Visibilità discreta (prefazione di Lucio Zinna, 1989), 
Estremo niente (con una nota di Melo Freni, 1992), Fescennino per Palermo (1993), Questioni d’anima (prefazione di Aldo Gerbino, 1995), Elogio de los labios (a cura di Carlos Vitale, Barcelona, 1995), Malva e Linosa - haiku (prefazione di Dante Maffìa, 1996), Bagagli smarriti (prefazione di Fabio Scotto, 2000), Tocchi e rintocchi (prefazione di Sebastiano Saglimbeni, 2003), Gobba a levante (prefazione di Paolo Ruffilli, 2011), Voragini ed appigli (prefazione di Giorgio Linguaglossa, 2016), Birilli (sei poesie con una incisione di Girolamo Russo, 2016), D’un continuo trambusto (prefazione di Roberto Deidier, 2018).

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Un teatro di verità di Elio Pecora (prefazione a Tra un niente e una menzogna di Nicola Romano, Passigli 2020)

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     La poesia, a chi la cerca e la insegue e la trattiene, si mostra spoglia, in attesa di quel che le verrà affidato. E accoglie e prende quel che la persona, e la mente e il cuore, di chi le si accosta riesce a darle di emozioni e di umori, tutti composti in parole necessarie ed esatte, perciò durevoli. Perché queste parole arrivino ad essere consegna ed espressione, bisogna che rappresentino una comunanza di affetti, di percezioni, di intese, tali da rinnovare e reiventare quei temi basilari che, come ripete Borges, significano e accompagnano l’esistenza umana. Dunque l’amore, la morte, la guerra, l’assedio, il ritorno. E non si riducono a questi, o si consumano in questi, le nostre giornate? Non siamo assediati dall’ansia, in guerra perpetua con la paura della morte, abitati dal dubbio che avviva e affligge l’amore, dalla nostalgia dei beni perduti, dal desiderio inestinguibile del ritorno?
     Questi temi e bisogni e sentimenti sono materia e spinta della raccolta poetica di Nicola Romano che, della sua sicilianità, porta la luce piena e le fittissime ombre, la spossante malinconia e l’intensità degli affetti, l’ironia affilata e i goduti sarcasmi. Tra il niente, di continuo minacciato dal pensiero cogitante e la menzogna che in quella minaccia s’addensa e si logora, la parola della poesia pone la grazia dell’essere, dello stare. Se l’epigrafe di Calvino avverte su un sogno di assolutezza che ammala l’uomo e lo rende incerto e insicuro di quanto gli tocca e gli preme, Romano conduce chi legge – nei versi brevi e ritmati, negli scorci del mare e delle campagne, nel flusso dei ricordi, nelle assolte segretezze – a un teatro di verità che vince sul niente e sulla menzogna.
     Ad apertura del libro le parole si presentano in un “letargo illogico”, pure pretendono di brillare, di essere scelte e pronunciate. Così alla negazione si contrappone l’urgenza del dire e del dirsi, di conoscersi e di riconoscersi. Così le parole escono dai silenzi, sgranano memorie, rinnovano vicinanze, scaldano pensieri. E, se resiste la consapevolezza della brevità e della precarietà, ha la meglio una pazienza ricevuta, una tenerezza che, approssimandosi alla natura animale e vegetale, fa dolce e nutriente la pena: “Sono il setaccio di tutto ciò che ho perso”. E il setaccio equivale a quell’ “imbuto stretto in cui passa il mondo” come 
Calvino, in un suo saggio, ebbe a definire la poesia.
     Non mancano in questo libro le amarezze, finanche la disperazione. Vi sono stanze che il “maneggiare il corso dei pensieri” fa apparire come labirinti senza uscite. Né mancano il nero della noia, il vuoto dell’assurdo e dell’inutile, le stagioni che si mostrano in un “duro incespicare”. Pure la volontà di sapersi vivo valica la tristezza e la smorza: “...ai vuoti più recenti da riempire/ con il terriccio tolto alle paure/ e sostare allo specchio per capire/ nell’anima e nel corpo i mutamenti…Dunque, se nel fondo del pozzo in cui si è caduti “manca la corda e il secchio”, resta il cielo da guardare e in quello specchiarsi per esistere. Allora, come in un commovente inventario, tornano a respirare le amicizie, gli amori, le città traversate, le ore della luce e quelle della notte lunare. In così tante stratificazioni il teatro della vita si rinnova e reinventa nel gioco arduo e felice della poesia.

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Da Tra un niente e una menzogna

 

 

QUEL VAGO

 

Le porte sbattute dal vento
ribattono un vento di mare:
oscilla nel sonno leggero
la cupa lanterna
tra i muri del cuore
dilaga la polvere e il muschio
continua a patire sui prati
la febbre del tempo peggiore


Chissà tutta intera una vita
se esclude quel tempo migliore
pensato tra ali di canto
e odori rapiti ai verzieri
D’inesauribile attesa
quel vago che trema negli occhi
e non sa che dispiace

 

 

ECHI

 

Non so che farmene
di questo fatuo silenzio
che porta solo spruzzi
di anime per sempre dipartite
e luttuosi apparecchiano i minuti
d’un pomeriggio
di squagliato umore
Dove saranno i morti e che rimane
della loro stanchezza ripiegata
sulle sedie d’inverno o delle voci
che intense dispiegavano
da una porta all’altra della casa
e cosa suggeremo
dai ricordi che il tempo ha sfilacciato
fino a più non sapere
ricomporre il puzzle d’un sorriso


Senza risposte
si sconforta il cuore
che muto si rassegna
a un indormiente
palpito notturno

 

 

IL DADO

 

Lato al cubo
volume e facciate
il dorso roteante
s’abbrivia di taglio
sconnette tartaglia
s’impenna al contatto
lo spigolo smusso
traballa sul panno
percorre s’affloscia
in un òsseo tramonto
e conferma con UNO
una vita di guano

 

 

LE POESIE

 

Per scrivere poesie
bisogna frequentare il vuoto
la durezza dei muri
il farfugliare assurdo
delle chiromanti
e la danza spettrale delle foglie
quando di sguincio batte il maestrale
Disorientarsi
con la schiena piena di vergogne
necessita
e intimorirsi al tuono dell’inverno
piegarsi come giunchi spampinati
sulla pianura rasa dal seccume
e rovistare l’alba disarmata
che s’apre ai pericoli del tempo

 
Serviranno quei versi
nauseanti come peli sul lavabo
o finiti per caso
nell’umido sparpàglio dei rifiuti
e ad ogni modo
per scrivere poesie
bisogna genuflettere l’anima
ascoltando un album di Endrigo
e lavarsi i capelli
con la residua cenere del mondo

 

 

PUNTO A CROCE

 

L’ultima goccia e poi
l’acuminata virgola dell’alba
verrà a riempire
il vuoto delle greppie
Sotto i ronchi di Altair
il cigolio d’un camion che spazza
è l’unico boato nella notte


Un gatto lecca il buio
e poi scompare

 

 

I MORTI

 

Gagliardi e volitivi
stanno con noi i morti
piccoli e grandi elfi
accanto ai nostri passi:
li trovi tra i tornelli della Metro
o a scaldare le mani ai mendicanti
spingono sassi dentro la corrente
e raccontano storie mai sentite
coi visi ancora scuri di tramonto


Stanno un po’ in città
e un po’ in brughiera
in fila ai varchi senza telepass
fanno visita ai vivi con i fiori
e pregano per noi (coscienze amare)
Li trovi dentro
ai sorsi d’acqua pura
nel tepore dei lumi d’ogni casa
e spargono per campi
tutto il senno
di chi ha già messo piede
nell’Eterno

 

 

MALATTIE

 

Ci sono malattie
pure in salute piena
tanti morbi annidati
in sillabe bacate
che cascano dai denti
e gesti cancrenati
mulinanti nell’aria
non certo indispensabili
anzi dannosi e spurî
Movenze che dibattono
tra un niente
e una menzogna