Su e da "VILE ED ENORME" di Lorenzo Fava. Recensione di Carlo Giacobbi

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Lorenzo Fava, nato ad Ancona il 12 giugno 1994, vive a Macerata dove lavora come giornalista. Nel 2019 ha pubblicato, per LietoColle, Lei siete voi. Collabora con l’associazione culturale “Licenze Poetiche” e dirige la rassegna di incontri “Conversi” alla biblioteca della poesia di Macerata. Sue poesie sono apparse su diversi blog e riviste online tra cui “Inverso”, “Atelier” ed “Avamposto”.
Vile ed enorme è la sua seconda raccolta.

 

 

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          Quello che colpisce, nella silloge di Lorenzo Fava, è la profonda humanitas che connota il dettato poetico.
          Il macrotesto è percorso da sintagmi che rimandano ad un io-lirico predicante «la sincerità dell’intento» (p. 13), «la gentilezza del lascito» (p. 16), «la delicatezza / di un suono» (p. 26).
          Il poeta sembra richiamare la filosofia del singolare kierkegaardiano, intesa qui nei limiti d’una soggettività che ha il suo nucleo basico nella scelta di rapportarsi – nel caso di specie in termini filantropici – all’altro e, nondimeno, all’Assoluto.
          Non è un caso che Fava richiami «la singola esperienza umana» (p. 17) o che «auguri al (…) prossimo un senso / di pace come lo provi adesso» (p. 38) o che insista su quella particolare forma dialogica con la trascendenza che definiamo preghiera (p. 26, «Preghi»; p. 27, «una preghiera oltre / lo spazio (…)»; p. 29, «una preghiera»).
          Il Nostro pone in evidenza l’intervento locutorio di Dio – dunque la sua presenza nella Storia – ove afferma che «Dio interloquisce per un attimo / e la parola è libera di volare» in quella lirica di p. 35 che è di fatto uno splendido salmo di lode, di riconoscimento dell’enormità del divino e della sua sconfinata attenzione per l’uomo (p. 35 cit., «siede a margine con gli ultimi, / (…) Del perdono ha fatto una scultura gigantesca»).
          L’Autore sembra pervaso da uno stupore febbrile, da quel thauma che è allo stesso tempo angoscia per il fatto che «La nascita è di per sé un patto di fine» (p. 16) e meraviglia del sentire «dentro un volere alto» (p. 31), del concepire «ogni movimento» (p. 26) della vita quale «danza dello spazio» (ibidem).
I gesti quotidiani, umili, in apparenza nugali, vengono eletti da Lorenzo Fava a dignitose forme di resistenza nei confronti dell’evento terminativo (p. 48, «Non si può dire che sei morto / finché fai questo: riscaldi il pasto, / lavi un pavimento, / fai complice del bene / ogni frammento del tuo corpo»).
          Ciò in quanto – sembra dire il Nostro – ogni accadimento, per quanto semplice, «ogni gesto primitivo» (p. 15) è «metafora totale» (ibidem) e dunque figura indicativa di un aliud da rinvenire oltre la superficie, «segno» (p. 26) che «rimanda un senso» (ibidem), in quella dialettica tra significante e significato che ricorda – in termini concettuali – il pensiero luziano, secondo cui il meta-phérō non è mera convenzione retorica, ma dato ontologico («La metafora è già. / Sei tu la metafora. / Lo è l'uomo / e la sua maschera. / Lo è / il mondo tutto / da quando è» da «Per il battesimo dei nostri frammenti»).
          I versi di Fava rimandano ad un fondo misticheggiante; la parola poetica si apre al mistero, lo interroga (p. 39, «Chissà se siamo soli o qualcuno / dai sei lati ci sorveglia»), prende atto dell’impossibilità di fare cognitio definitiva del reale (p. 40, «C’è qualcosa che fluisce nell’aria, / (…) Sia un gesto gratuito / del sole o un senso di presagio / non lo sappiamo»).
          L’autore, spesso, si rivolge ad una seconda persona singolare, ad un Tu-generico ma, riteniamo, coincidente con il poeta (p. 14, «Era incredulo il mondo al bene che volevi»; p. 52, «In un giorno qualunque trovasti / la parte mancante del segreto / che eri»); l’io-lirico è monologante, l’eloquio si atteggia a 
mormorio tra sé e sé, a ruminazione del pensiero o dialogo interiore dai toni ora assertivi e sentenziosi (p. 20, «La luce in principio era totale», ora ipotetici (p. 51, «Forse è davvero / per lasciarsi un poco vivi» ora imperativi-esortativi (p. 49, «Fai che quando sarà il momento / il pensiero non vacilli»).
          Un escamotage retorico, quello di Fava, molto interessante, poiché omettendo l’io dal dettato, ma pur riferendosi ad esso, di fatto dice se stesso vanificando il rischio di autoreferenzialità e, simul, individuando in ogni possibile fruitore del testo il tu della pronuncia poetica, consentendo allo stesso lettore-auditore di sentirsi direttamente interpellato dai versi.
          Dal punto di vista formale i testi spaziano dall’epigramma-distico (p. 18, «Hai visto una formica ingigantire / fino a schiacciarti il cuore») a modelli compositivi a strofe unica di ben maggiore estensione (nella lirica di p. 42 i versi sono 19); molte liriche sono concepite in forma di quartina dalle diverse misure metriche.
          Ma quello che interessa all’Autore – almeno questo ci pare di intendere – non è né la tipologia compositiva né la quantità sillabica, ma i cola ritmici; il dettato deve poter essere cantato senza complicazioni, deve – per così dire – “suonare all’orecchio” o seguire il tempo di un ictus primordiale (p. 22, «La poesia è un ritmo minimale / che sta nel sangue»), sicché il metro (che può aumentare o ridursi) viene adeguato di volta in volta a seconda del ritmo che Fava imprime ai versi.
          Questa esigenza ritmica è confermata dall’uso ricorrente di versi sintatticamente autonomi (p. 14, «Era incredulo il mondo al bene che volevi»); p. 16, «La nascita è di per sé un patto di fine») o che, anche utilizzando l’enjambement, sono scanditi dagl’interpuntivi della virgola o del punto fermo rinvenibili nel verso sottostante (p. 27, «Hai perso la tua strada per la delicatezza / di un suono»), ragion per cui il lettore ha sempre presente quali siano gli incipit e gli explicit dei singoli frammenti della composizione, ove occorre dunque pronunciare o sospendere la pronuncia, riprendere fiato.

Carlo Giacobbi

 

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Da VILE ED ENORME

 

 

La sola cosa che hai a cuore
è la sincerità dell’intento. T’infuria
chi ha occhi sulla luna e non morde
dall’alba un nuovo sole.

 

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La poesia è un ritmo minimale
che sta nel sangue.
Sia il tuo occhio sulla nuca,
la rivelazione del mistero alle tue spalle.

 

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Dio interloquisce per un attimo
e la parola è libera di volare.
Pronuncia oltre il confine del pensabile,
siede a margine con gli ultimi,
ha imparato la bontà dai cuori
degli sconfitti, dalle menti più lucide
il massimo della calma, dalle mani
dei veri la faccia della vittoria.
Ne ha memorizzato i lineamenti
come la storia fa con gli eventi,
ha imparato da mille ripetizioni
l’arte del respiro. Del perdono
ha fatto una scultura gigantesca,
ha cavato il marmo dalla nebbia
e ne ha prodotto un uomo buono.
Domanda qualcosa che precede
lo zero, il punto ultimo di chi ha
il passato di fronte.

 

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È un momento di calma, la teiera
sulla fiamma fischia, il posacenere
ferma le carte sulla scrivania
e la strada tace. Rimane poca luce
all’avvento dell’inverno, ritornano
nasi gelati ma nessun volto attorno
è scuro. T’illudi l’immenso cerchio
del cielo trovi un punto fermo,
auguri al tuo prossimo un senso
di pace come lo provi adesso.
Questo basta al pensiero mentre
ti passi un giro di pettine e dici
stai bene: un ammiraglio in nave
col mare a forza alta.

 

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Non si può dire che sei morto
finché fai questo: riscaldi il pasto,
lavi un pavimento, fai complice del bene
ogni frammento del tuo corpo.

 

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Un canto s’alza dalla pietra
tu sai che la vita è smisurata.