Sulle opere in versi di alcuni giovani autori marchigiani (Curi, Fava, Polverini, Ruggieri e Settembri). Note critiche a cura di Guido Garufi


x

x

x

x

x

x
 
 
* * *


 

AUTORI DI MARCA

Esplorazioni sulla pagina dell’unico Libro
Parte seconda
 
Di Guido Garufi
 
 

 

* * *

 



Jacopo Curi, Laureato cum laude in Filologia Moderna all’Università di Macerata, è docente di materie letterarie. Attualmente collabora con le associazioni “Versante” e “Umanieventi” e con la rivista “Midnight Magazine”. Alcuni suoi testi sono stati tradotti in spagnolo per il Centro Cultural “Tina Modotti” di Caracas. È inoltre rientrato nel censimento dei poeti under 40 di Pordenonelegge.
 
Lorenzo Fava (1994), di Ancona, ha pubblicato per LietoColle Lei siete voi e quindi, per Arcipelago itaca, Vile ed enorme. Suoi testi sono apparsi su “Atelier”, “Avamposto” e “Inverso”. Corre l’obbligo di segnalare la sua tesi su Silvia Bre che si spera possa uscire come testo pubblico poiché è certamente uno studio critico raffinato ed empatico.
 
Pietro Polverini (Camerino, 1992), dopo la laurea magistrale in filosofia in Teorie dell’Arte dal titolo Un’estetica dattilografica. Appunti su Amelia Rosselli, rivolge la sua attività critica verso la Letteratura italiana contemporanea, occupandosi di Giovanni Prati e Clemente Rebora. Quindi alcuni saggi su Patrizia Valduga, Vivian Lamarque, Pier Vittorio Tondelli, poi confluiti su riviste accademiche e volumi universitari. È redattore di “Mediumpoesia”. Alcuni suoi versi sono apparsi su “La bottega della poesia” (“Repubblica”), a cura di Gilda Policastro. Il suo libro d’esordio è Indice sommario di sbiadimento, uscito per peQuod.
 
Simone Ruggieri, fermano, 1989, dopo la laurea in Storia della critica letteraria, scrive interventi e saggi rivolti ad autori della letteratura e della filosofia italiana delle origini e del Novecento, molti confluiti ne “La Rassegna della letteratura italiana” e in “La confederazione italiana”. Dopo alcuni testi poetici per “L’immaginazione”, con Arcipelago Itaca ha pubblicato la sua raccolta cadetta Gli occhi di mattina.
 
Ezio Settembri (1981), dopo la laurea in Lettere moderne con una tesi su Ottone Rosai, insegna a Mantova in una Scuola superiore. Ha pubblicato saggi su arti figurative in varie riviste ed anche versi su “Atelier”, “La bottega della poesia” (“Repubblica”), “Infinito letterario”, “La poesia e lo spirito”, “Arcipelago itaca” e molte altre. Intensi saggi sono usciti su “Menabò”. Fa parte della redazione della rivista “Nuova Ciminiera”. Di grande interesse le sue ricognizioni su Ferruccio Benzoni, Pasolini, Scarabicchi, Davoli e Garufi. Densa ed esaustiva la sua monografia Il mito ritrovato - Umberto Piersanti, uscito per Industria & Letteratura.

 

 

* * *

 

 

L’immagine accanto è il titolo della prima raccolta poetica di Jacopo Curi, uscita nel 2019 per Arcipelago itaca. Dialogo (e monologo insistente) di colore metafisico per interrogarsi: richiesta-domanda che in apparenza si muovono su un tradizionale asse lirico melico ma subito, e questa è la novità certa, almeno per me, sostituito dalla crudezza e dalla ruvidezza del linguaggio. Tale bilocazione e doppio registro costituiscono, a mio avviso, la novità di questo giovane autore. Non è facile tenere in equilibro le due “grammatiche del cuore” che prendono forma, anche qui uso Mauron, in metafore ossessive e linee guida, bussole che colgo in ricorrenze come: schermo, connessione, luce, nascita, mettere a fuoco, istantanea. Sembrerebbe un “continuo guardare”, un continuo cercare “onde per poco il cor non si spaura”. È un continuo guardare a prima vista. Ma non è solo la datità “ottica” quanto l’interrogazione e la domanda, anzi la riflessione: “C’è qualcosa che manca oppure la solita apertura sul nulla” che aprirebbe l’inchiesta ad un fondale più esteso, direi ad un chiarimento ontologico e universalissimo. Ma perché la linea “tenga” e non ceda ad un leopardismo d’antan, che troppo spesso infesta, o all’autobiografismo o all’imitazione spuria che ho letto in tanti giovani autori, Curi, con abilità e naturalezza, imprime alla lingua e al suo discorso poetico un ribaltamento che consiste in un sermo umilissimo capace di coniugare l’alto con il basso; dico della simbolica del corpo (questo sì da me registrato in tantissimi giovani autori marchigiani – e non solo – dell’ultimo trentennio). In tale ottica è possibile in questo “racconto” che già nel titolo rimanda, almeno come griglia larga, ad un classico che invito a leggere – si tratta del mio amatissimo L’anima romantica e il sogno dell’insuperabile Albert Beguin –; in tale ottica dicevo trovano verifica le “spie” e le “bussole” sopra indicate. Infatti si tratta di gemellare o di leggere la parentela stretta tra visione-interrogazione e sogno, dando al secondo la sua oggettività somatica: “A volte mi sveglio dalla veglia e penso / sei tu questo vedere, questo fare tardi / per avere più tempo e per un momento / sento la pelle intorno e la carne addosso / mi percepisco insieme assopito e desto / che entro ed esco da questo corpo. / A volte mi sveglio dalla veglia e penso: / sei tu questo vedere, questo fare tardi per avere più tempo / e per un momento sento la pelle intorno e la carne addosso / mi percepisco insieme assopito e desto / che entro ed esco da questo corpo”. L’immagine è “accanto”, ma cosa sia questa “figura” è un enigma insoluto. Può sembrare quasi una esplorazione sul perché della “lingua” sulla sua “radice”, insomma l’apparire di un pensiero presocratico o il “luogo” heideggeriano del linguaggio, le infinite opposizioni tra essere e non essere, sul nulla. Jacopo è uno scriba che “cerca”. Propongo questa ipotesi: l’immagine è il “foglio” sul quale si riflette il pensiero, la poesia è immagine riflettente, pensiero poetante.
 
Lorenzo Fava è alla sua seconda prova. La prima ha costituito il suo laboratorio artigianale, la semantica del titolo, Lei siete voi, indirizza il lettore alla percezione di un dettato quasi distopico, una linea di rottura del Soggetto (autore) clamante e reclamante l’altro, anzi gli altri. Quasi una messa in moto, un allenamento matto e disperato per superare ciò che all’inizio era ancora frantumato, senza la direzione del senso. Eppure covava in quel libretto (come spesso avviene per le nuove generazioni) un vero e proprio allenamento, stilistico, soprattutto. Giacché è un elettrocardiogramma capace di segnalare le aritmie e le pause in eccesso, le sospensioni. Insomma il primo libro come “frammento del Sistema” (per citare Hegel o il primo Kant nel suo Fondamenti ad ogni metafisica futura). Si parte da una condensazione per poi dipanarla come nel caso di Fava nel più maturo Vile ed enorme. Alessio Alessandrini nella sua sentita e breve nota iniziale intuisce un “libriccino sapienziale” nei versi di Lorenzo e quindi la sua (dell’autore) tendenza al “cantare”, un canto-preghiera. Mi permetto di aggiungere qualche dettaglio. Ritengo che il libro cadetto non poco abbia influito su questo più maturo, anche per ordine metrico e simmetria (quasi tutte quartine e, nei testi non incatenati, finalmente la verticalità o filo a pendere, insomma un “inquadramento” grafico a plomb, senza alcuni “furbi” scherzi di gioco distopico sulla pagina). Il che segnala l’avvenuta coscienza del senso compatto da inviare al lettore, indicando la fatica di comporre l’ossimoro permanente (che è poi la poesia più in generale e non solo questa di cui si parla): vile ed enorme, allora, come struggimento nel bilanciare le due cose, Apollo e Dioniso, Caos e Cosmos. In questa raccolta le due forze tentano l’alleanza. Silvia Bre, che l’autore ha studiato da sempre, può costituire un punto di riferimento (non il punto) proprio nei termini in cui Silvia riesce (e ci riesce solo lei, da quanto leggo) a “raffreddare” l’eccesso in una rara e unica leggibilità drammatica. Fava fa sì che il Canto (interno) si faccia mano a mano testo, testo e forma poetica leggibile. La sua leggibilità (e permanenza nella mente del lettore) sta nell’urlo e nella voce, nel recitante occulto che svetta: “I graffi sulla pelle fanno del dolore / una mappa, segnano i punti cardinali / sulle unghie e le ginocchia”.

Indice sommario di sbiadimento è il primo libro in versi di Pietro Polverini. Difficile parlarne perché ho la netta sensazione che questo “indice” sia appunto un sommario, un riassunto, una concentrazione di temi (e stilèmi) che avranno, come io spero, l’approdo ad una raccolta complessiva. Concentrazione fisiologica poiché l’autore ha come voluto in un certo senso “allontanarsi” dai suoi studi leggiadri in contemporaneistica, sottraendo, azzerando, togliendo spazio al suo ore rotundo limitandosi, allora, a lanciare la direzione del suo viaggio. Lo testimoniano, ad esempio, le citazioni in lingua latina, l’affannata (e ansimante e ansante) ricerca di una “figura” che incardini il discorso poetico, una bussola. Leggo così, ad esempio, le tabulae anatomiche che Pietro inserisce, quasi a voler “spiegare” ciò che la lingua (ho detto “contratta”) non riesce a dire, ha ex-premere. A volte vedo emergere Rebora, tematicamente, occultamente, altre volte e di più Patrizia Valduga a proposito della ossessione corporea, il senso dello sfumare e della morte nel vecchio Requiem del 2004, una sorta di misticismo e di ferita. Ma qui, alla lontana, mi viene in mente Atelier d’inverno del mio sempre caro amico Remo Pagnanelli. In quel testo Remo, intriso nella seconda parte di lingua psicoanalitica, non si liberava ma faceva tra-lucere. Vedo una perfetta simmetria tra quella raccolta e questo sbiadimento: “La carità è piccola, / questioni batteriche. / Le tue mani spillo / pungono le labbra / solo per assillo. // A quest’ora la poesia resta / solo un fatto biologico nella testa / che vede dividersi in mitosi la promessa / di un sole antico che attento confessa / la voglia scarnificata di me nel mondo”. È un piccolo, denso ed enigmatico libretto, è un coagulo “letterario”, infatti Polverini, non raramente, riflette su quanto scrive: parla di lingua, ragiona sul verso, sullo stesso perché il verso e la parola sono “anche” centro di meditazione, una meditazione sofferta. Metafora centrale e ossessiva, così la chiamerebbe Mauron, è quella della “vista”, occlusa, annebbiata non dalla “siepe” leopardiana, ma dalla siepe modernissima che è dentro di noi, come in questa isola di senso: “Altrove l’alga del cielo / supera in una rete di coralli / il nostro infermo assedio”. Non è una resa lo stesso mandato della poesia. Da sempre.

Con Gli occhi di mattina Simone Ruggieri presenta il suo testo cadetto, la sua prima raccolta di versi. Corposa, in verità, ma non tanto per le pagine quanto per la struttura versificatoria che la dice lunga. Ovvero che siamo davanti ad un autore che non “sente” la poesia come intrattenimento dopolavoristico, ricreazione e tantomeno “laboratorio sperimentale”. In Ruggieri si avverte subito, verso per verso, pronuncia, e persino “svettamenti lirici”, che nulla è affidato all’autobiografismo grossolano. Dico dei “conati romantici” di cui parlò De Lollis a proposito del terzo romanticismo, quello lamentoso, e ancora meno cede alla “introversione” che leggo spesso in giovani autori, mimetizzata prudenzialmente da satelliti e spiriti guida che in questo ventennio imperversano senza riferimento ai Maestri. Dico della tecnica (abusata ed evidente) di teorizzare ganci o agganci con l’immediato presente, quando non, più furbamente, citando en passant “firme” straniere (in genere angloamericane) utili per “nobilitare” il testo che altrimenti crollerebbe. Nulla di tutto questo. Alessio Alessandrini in una folta prefazione semisaggio allude ad un Canzoniere, naturalmente e tematicamente petrarchesco, poiché l’Altro/a in questi testi spingono nella direzione della linea o asse della poesia amorosa (e della sua “assenza”) ovviamente, sulla quale e “intorno alla quale” tutti hanno giocato il grande gioco: da Silvia a Laura e Beatrice e “quelle che son nel numer delle trenta”, fuori insomma dal fuoco “infernale” (altro alto gioco) di Paolo e Francesca. Qui mi permetto di cogliere “anche” una seconda voce, o fonte, che è Umerto Saba. Dico delle sospensioni e leggerezza, una certa levitas che sento e leggo ampiamente diffusa in tutto il libro. Ma qui si ritorna al motore immobile della raccolta, al suo avantesto: non tanto o solamente il “Lei” da cui parte il ricordo o l’occhiata, quanto invece, a mio avviso, l’oggetto dello sguardo (Lei) che per fortuna (?) consente all’autore una discesa sulla “natura”, anche cittadina, dico sulle “cose” e dell’habitat. Ha scritto Montale che “di tutte le donne ho fatto un solo fantasma”. A me pare che nella raccolta (ancora e per fortuna) abbia il sopravvento, invece, la fedeltà e l’amore per la scrittura-letteratura, per una parola che mai è in morte o in vita di Monna Laura (ancora Petrarca) ma si metabolizza con altro, va oltre lo stretto dialogo che notifica una assenza o uno struggimento. Insomma se si legge Ruggieri non tematicamente ma stilisticamente non può sfuggire che la donna è Ombra e su di lei (o da lei) partono ben altre occasioni e tra queste quella più importante è l’allargamento della poesia al mondo e alla più generale esistenza. L’abile costruzione stilistica si giova persino di un lessico, a volte, interno all’ermetismo culto. “Ritornerà la sera e il nuovo giorno / nel fondo grigiocupo del silenzio / saremo due persone separate”: lo sguardo “mattutino” che è quello dell’avvistamento e anche dell’opacità annuncia (come la Nottola di Minerva per Hegel) il momento di autocoscienza; né notte né giorno ma il principio della comprensione e dello sguardo, che, poi, è l’incipit della poesia, di ogni poesia.
 
Se esiste, come afferma Mario Petrucciani in uno studio troppo dimenticato sulla semantica dei titoli, una “responsabilità” nel battesimo di un libro, è quella di costruire ed intuire (lavoro difficile ed equivoco) appunto, il titolo. È come dare il nome ad un bambino. Esamino volutamente con vecchie e amorose griglie questa condensata e mai “slabbrata” (per fortuna) raccolta, il primo libro di Ezio Settembri: D’altra luce. Anzitutto quanto a stile direi di una impronta e di un calco classico e (finalmente) “regolare”. È stato Lotman, ma Chomsky ancora di più, a definire “informato”, anzi “più informato” un testo “semplice” (Leopardi docet). Il che porta a pensare che, in un certo senso, meno sperimentale è la lingua, tanto più concede alla memoria (e memorabilità) del verso, al suo senso, che, in definitiva, è ciò che ci rimane dentro e ci fa distinguere quell’autore dall’altro. È quanto sostiene l’amico Giancarlo Sissa all’inizio della sua ficcante e partecipata, e non occasionale, prefazione. Tutta la raccolta gira intorno ad una Assenza (ma non è proprio la poesia, da sempre, a realizzarne la Presenza?). Assenza del padre che si allinea con quella materna. Ma Settembri non è il Maestro che resuscita Lazzaro, semmai (e lo dimostrano i suoi versi) è colui che “amando” la poesia, entrando in essa, autoesplorandosi (anche come inesausto critico e lettore) utilizza (per naturale fisiologia) la storia delle parole, che non è altro che la Letteratura. L’ampio spettro che collega voci antiche e nuove è per Settembri una sorta di gemella famiglia. Non a caso la raccolta si dispone in sezioni tematiche e si allarga ai fratelli, gioca sul suo cognome, Settembri, cognome che la dice lunga non tanto o solo come “tempo di migrare”, ma la stessa pluralità, la circolarità del tempo e delle stagioni che si susseguono, “erga kai emerai” che coinvolsero Esiodo. Vi è poi uno spostamento verso la sua seconda patria, Mantova, la sua classe, un “allargamento” della comunicazione e delle empatie, una sorta di vento nuovo e fuoruscita dal “nucleo” e dalla vecchia ferita. A tal proposito leggo così la ventosità di “Gratitudine”: vento zanzottiano, dico della pronuncia e delle dinamiche iterazioni, se solo faccio caso agli incipit: “per il dono del vuoto…”, “per tutti i piccoli fastidi…”, “per la memoria dei miei cari…”, “per la luce alta sopra di me, / così carica e innocente”. Rievocando la semantica del titolo sospetto che D’altra luce possa indentificarsi con lo “sforamento” e l’uscita da un tunnel, da una gabbia, insomma: “Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi! / Va, per te l’ho pregato, ora la sete / mi sarà lieve, meno acre la ruggine”. D’altra luce è, allora, in questo autore congruo e mite, la “luce” che la consapevolezza sulla poesia dona, per esplorare il mondo, per riconoscersi.