Su "ANAMORFICHE" di Danilo Mandolini. Il saggio di Alessio Alessandrini

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Danilo Mandolini è nato ad Osimo (AN), dove vive, nel 1965.

Ha pubblicato, in versi: Diario di bagagli e di parole (1993), Una misura incolmabile (1995), l’anima del ghiaccio (1997), Sul viso umano (2001), La distanza da compiere (2004), Radici e rami (2007), A ritroso (2013), che raccoglie un nucleo di inediti e ‒ per ampi tratti rivisitata ‒ anche una vasta selezione di testi da tutta la precedente produzione, e Anamorfiche (2018).

Sue poesie e suoi racconti brevi sono apparsi in antologie, riviste e blog letterari.

La sua opera in versi ha ottenuto riconoscimenti in numerosi Premi letterari italiani.

Nel 2010 ha ideato ed iniziato a curare “Arcipelago itaca”: un progetto di diffusione della poesia contemporanea e non solo che nel frattempo è divenuto anche casa editrice (www.arcipelagoitaca.it).

Per Arcipelago itaca Edizioni, oltre ad esserne il titolare, è responsabile di alcune collane.

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          Per affrontare la lettura di Anamorfiche di Danilo Mandolini (Arcipelago itaca 2018) occorre sovvertire ogni regola e affidarsi a quanto ci rivela lo stesso autore nelle note:

          «Il titolo rimanda alla tecnica denominata “anamorfosi” che nelle arti figurative è la rappresentazione di una scena in deformazione prospettica; questo: per far sì che la visione corretta della stessa scena possa avvenire solo da un punto di osservazione diverso da quello frontale. La scelta del suddetto titolo vuole contribuire a evidenziare la convinzione, forte in chi scrive queste note, che tutti gli eventi che determinano la realtà hanno un numero infinito di possibili interpretazioni, di minime e minimali componenti e sfaccettature ‒ mai tutte completamente percepibili ‒ che tra loro, a volte anche paradossalmente e grottescamente, spesso risultano essere sovrapponibili o intersecabili» (cfr: Note ai testi).

          Si tratta, come prima evidenza, dunque, di una produzione tutt'altro che istintiva e semplice, primaria, per così dire; sembra ci si trovi di fronte, piuttosto, a una raccolta di versi che per complessità e sfumature richiede un'attenzione la più salda possibile.

          Punto di partenza è una ricerca pseudo statistica che punta a individuare «lo scenario futuro immaginato per l'umanità più prossimo alle proprie aspettative». Un desiderio di indagine è il primissimo indizio che ci fornisce una prima lettura della raccolta. Siamo di fronte a un susseguirsi di voci, tra di esse spicca innanzitutto il suono metallico di un altoparlante, il cui richiamo pone la domanda iniziale e iniziatica:

 

«QUALCUNO SA DIRMI COS’E' LA MORTE?»

 

Di qui l'evidente vocazione all'oralità della poesia di Mandolini, oralità non intesa però in prospettiva teatrante o di recupero di un'originalità arcana, ma in particolar modo come atteggiamento di ascolto e di ricezione di ciò che esce dalla bocca, meccanica o "carnale", che produce il suono (la radio, la tv, un passante, la pubblicità).

          In una realtà dove spesso si perde adesione con la matericità, pur sempre evocata, o proprio perché evocata all'eccesso, quasi a banalizzarla, a "nichilizzarla", l'unico strumento che pare possa resistere alla trasparenza, al buco nero dell'annientamento, sembra essere rappresentato dalle voci, nella loro totalità, a volte, o meglio, più volte cacofoniche, altre più armoniose, diatoniche, alterate, faticose...

 

Il vuoto

ha più voci ma

è trasparente.

(pag. 23)

 

D'altronde, lo scenario che ci si presenta di fronte pare essere apocalittico o post-apolicalittico, un tempo residuale ritmicamente cadenzato dalla finestra socchiusa che batte sull'infisso a ogni transito di vento, come "la lingua batte dove il dente duole", lì, nell'intercapedine nella quale si insinua il brusio, nella felpata e interrogativa piega poggia l'orecchio l'autore e da quel concerto si muove, come un metronomo impazzito, la sua penna affebbrata di voci e di malattia, il suo radar acceso a intercettare le ombre ‒ siamo in un paesaggio postumo, appunto ‒ e il loro furtivo passaggio all'interno di una familiarità fortuita:

 

Alla fine, giocando spesso con noi,

anche lui cominciò a credere che

tutti i pomeriggi avevano

una corteccia

(scura, sempre la stessa)

che di sé viveva, che

al sole cambiava colore e che

pronta si attivava

(un lieve ronzio la frenesia)

per intercettare e inseguire

le ombre tutt’intorno

che impreviste arrivavano e

ritornavano.

[...]

(Backstage #1, pag. 26)

 

[...]

in un incontenibile crescendo

di mormorii e grida,

rimandano come lo stesso,

a tratti variabile,

all’inizio indistinto e

al fine clamoroso

(fatale)

fragore.

(pag. 27)

 

          Subito si può notare il correlativo oggettivo che viene utilizzato per esprimere questo senso inesplicabile di sottofondo; è quello traslato dal linguaggio dell'astronomia, dal mondo del telerilevamento: ronzio, intercettare, variabile sono termini che rimandano a quel pulsare insondabile e totalizzante dell'universo stellare:

 

(disinganno: astrazione che

in uno schianto

implode nel dolore

per poter poi sparire)

[...]

(pag. 28)

 

Immediatamente, però, lo slittamento semantico apportato dalla metafora si chiarisce e il minimo respiro cosmico diventa un pullulare di rumori del quotidiano come quello delle grucce che si muovono, toccate, sfiorandosi:

 

Provocano il suono

disarmonico dell’utopia

gli appendiabiti,

in plastica, spogliati,

che sfioro e che tocco con la mano...

[...] 

(pag. 28)

 

o come il rumore sconosciuto e ciclico del tempo che si accumula nel tempo. Si legga, a tale proposito, il brano della lirica di seguito riportata in cui ancor più si palesa l'accostamento della dimensione macrocosmica e universale di galassie e orbite a quello più "naturale" dei giorni umani:

 

[...]

E un segno lasciano,

questi spazi colmi di tempo;

lasciano

come una traccia lieve per dire,

per rammentare che a lungo

anche nel moto dell’aria persiste

lo stesso arrancare degli anni,

lo stesso esiguo clamore

che torna

dopo aver compiuto

(incolume cometa)

un’orbita completa.

(pag. 29)

 

Sembra di sentir parlare, anche se in versi, il Calvino delle Cosmocomiche che pronuncia a bassa voce lo spettro armonico dei minimi passaggi esistenziali, ed esiziali, per farne una poesia dai confini però infinitamente allargati, straripati in un tempo-spazio che si relativizza come accade per i cosiddetti anni-luce.

D'altronde, il mondo poetico, o meglio la ricerca in versi, di Danilo Mandolini si è sempre sviluppata intorno al concetto labile e probabile del doppio, dell'ambiguità, in un rovesciamento speculare e caleidoscopico che ha permesso al Nostro di dilatare all'universale il biografico, e al biografico l'universale, di garantire la possibilità a quanto sembra impossibile, e l'illusorietà a quanto sembra organico.

          Le psichedelie che rimandano all'"ampliamento della coscienza" (come specifica l'autore nelle Note ai testi poste in coda al volume) muovono da questa esigenza esploratrice, galileiana, se così si può dire, di intessere l'intreccio che lega il microscopico al macroscopico, il residuale al totalizzante, il fenomenico all'immanente. E' per questo, ma ne parleremo poi, che in Anamorfiche trova posto persino un ipotetico libretto da via crucis.

          Le immagini che richiamano un'ossimorica visione delle cose, una relativizzazione einsteiniana dell'osservazione, si moltiplicano e si inseguono per tutta la prima parte del lavoro:

 

In un conto alla rovescia

capovolto ricerco,

conto senza trovarle (1, 2, 3...)

impronte ai più sconosciute

[...]

la disperazione consapevole

dell’attimo che allungato scorre

in parallelo

[...]

(pag. 30)

 

[...]

E' solo da un punto così alto,

è solo così ‒

                     vigili, immobili,

                     senza riposo sorvegliando ‒

che si è capaci di percepire

il sordo gemito che gli uomini

rinchiusi nelle auto fanno

sfrecciando poco sotto.

 

(e altri vagano, sì,

scivolando invisibili

appena poco sopra)

(pag. 31)

 

          E' nel gioco del rovescio che avanza la scrittura di Danilo Mandolini, rischiando ogni momento l'impasse, l'immobilismo, l'annientamento, il disincanto, la perdita, se non proprio la scomparsa, ma ciò appare consustanziale a un contesto ibrido come il nostro, complesso e plurale e, allo stesso tempo, radicato in una nullità che sempre più invade e assorda:

 

L’esistenza ferisce

con ferite che sono

ombre vocianti di soldati

ammassati al fronte

che più non torneranno o che,

anche se torneranno,

mai li incontreremo.

(pag. 33)

 

[...]

Sono ferme quelle luci ma

il mio avanzare le sposta,

le avvicina, le disloca,

a tratti le nasconde

mentre la voce

metallica di donna, ora,

precisa dice:

( ... )

«Ma tutto ciò che si vede è forse vero?»

(pag. 35)

 

e ancora più avanti, alla fine della sezione successiva:

 

[ho immaginato di nuovo

(e ciò accade

ormai con troppa insistenza)

quando di tutti

noi resteranno ‒

                          ammutoliti,

                          abbandonati ‒

soltanto gli oggetti che in vita

con cura

abbiamo

a lungo conservato.

[...]

(pag. 51)

 

          Se l'esistenza si prospetta darwinianamente come resistenza, come sopravvivenza, è altrettanto vero che questa lotta, nel suo perpetuarsi storico, si pone spesso come onirica dimensione della perdita ‒ come appunto già detto ‒ come imponderabile e inevitabile rischio ontologico di scoprirsi ologrammi frutto di un sogno, o di perdere a poco a poco il segnale, la frequenza radio, l'unica che misticamente può confermare, pur nella sua debolezza prossima allo zero assoluto, il nostro passaggio. Non sorprende quindi che la seconda parte della prima sezione preannunci ‒ senza mai di fatto pronunciarlo ‒ uno dei termini chiave della poetica di Anamorfiche, ovvero la non-parola "silenzio":

 

[aspiro a conoscere a fondo,

fino in fondo,

l’essenza ultima e vera

d’ogni stupore.

 

Dove dimora, dove si sofferma,

verso dove, o chi, o cosa

si muove, l’eco che fa ‒

                                      se ne fa, se s’ascolta ‒

dileguandosi.

 

(che pace, però,

qui)]

(pag. 41)

 

          Con questi versi si apre la sezione che porta il titolo di Psichedelie dei silenzi; questa sezione esordisce con una struggente dichiarazione poetica che racchiude molto di quanto si è espresso: il desiderio di conoscenza, la ricerca di una traccia, l'esigenza di verità e, non ultimo, il pericolo dello scacco, del fallimento, della perdita di contatto.

Allora, come accadde per Montale, l'autore si avventura in «un varco senza voce» alla scoperta, quasi fosse un astronauta, un argonauta, di un mondo insondabile, non scibile dal punto di vista matematico:

[...]

E' a dir poco irrinunciabile

ancora, così

si raccomanda,

sottrarre anche solo uno sguardo

alla temperie urgente del nulla

che veemente giunge e che ‒

                                                nell’istante che pronto

                                                appare e scompare ‒

proprio non si riesce

(proprio no)

a sentire né

a misurare.

(pag. 43)

 

          Questo luogo/non luogo, questa utopia, che appartiene appunto al territorio del silenzio, dell'eco, della luce, questa trasparenza che riempie le intercapedini, questa "vacanza", è l'ossessione occulta dell'intera opera in versi di Danilo Mandolini, sempre vagheggiata e sempre sfiorata (si veda anche in A ritroso, l'autoantologia uscita per l'Obliquo nel 2013):

 

Con frasi altrui

valichiamo frontiere,

le attraversiamo lasciando,

di noi, come sottili,

irregolari interstizi.

 

Oramai siamo di là!

(o di qua, non importa)

[...]

(pag. 44)

 

          Al di là e al di qua di cosa non si sa, e forse neanche importa... Quali possibilità (alla Mark Strand, il maestro a cui si tende la mano e non a caso citato in esergo alla raccolta) e quali prospettive si stanno attraversando? Cosa porterà il tempo che verrà?... Riflessioni e domande alle quali è bene non dare troppo peso; l'importante è avanzare, è oltre-passare, passare oltre, mantenere fisso lo sguardo verso la mèta che è ancora lontana da venire, se mai una mèta da raggiungere esiste davvero.

 

[...]

Luce che si fa strato, specchio;

che altro barlume diventa,

che nelle tasche ‒

                              mulinellando un po’, mischiandosi

                              con dell’aria esigua ‒

inquieta si palesa come viva

nell’istante incerto

che senza annullarsi resta

e senza un sibilo,

poi, scappa.

(pag, 45)

 

          Come per la luce (come non ricordare, qui, Wallace Stevens) ciò che conta è il viaggiare; la luce si sostanzia nel suo stesso inseguirsi e perdersi, come l'onda dannunziana, ma senza quella festaiola aria barocca del nulla, semmai in un concreto presentarsi e assentarsi dentro un istante che è tale nel momento stesso in cui viene a mancare:

 

Potessi percepirlo

almeno una volta

lo scricchiolio che il divenire fa

quando m’abbraccia,

quando a sé mi stringe

per ritornare ad essere

infine

il mio percepire di sempre.

[...]

(pag. 46)

 

[...]

nell’identico luogo

(stesse coordinate),

nel medesimo sguardo

in movimento

in cui le luci gialle

d’una nave passeggeri al largo

senza spegnersi si spengono

semplicemente allontanandosi.

(pag. 47)

 

[...]

che la sfida è ‒

                        quaggiù, tutta, per tutti ‒

a dissipare, a sottrarre

per gradi consecutivi o,

evaporando,

in un sol colpo.

(pag. 48)

 

          Siamo nei territori montaliani, i correlativi sono simili per matrice, il richiamo è visibile, ma la prospettiva, lo si nota subito, sarà altra, meno nichilista, meno sprofondata nella disperazione, semmai in una mite sussistenza:

 

Non fa alcun rumore e poi

nemmeno si vede il filo

della ragnatela che spezzo

(quasi senza accorgermene,

la fronte un po’ china in avanti)

oltrepassando la soglia di casa

[...]

(pag. 49)

 

          «nelle pieghe immateriali, / nelle increspature che non vedo» (ancora pag. 49), in un realismo terminale, direbbe Oldani, muove con discrezione la sua ricerca l'autore, e trattandosi di una ricerca prospettica, nata e perseguita intorno a una delle molteplici possibilità (...e ti viene in mente che ciò che hai fatto della notte era solo una possibilità..., ancora il Mark Strand dell'esergo iniziale alla raccolta), si comprende come Anamorfiche non possa che avanzare attraverso lo strumento retorico della variatio, del combinatorio (ancora una volta il riferimento a Calvino non appare azzardato).

 

          Psichedelie dei rumori, delle voci e dei suoni - Due si situa, infatti, in una posizione simmetrica alle Psichedelie dei silenzi e riprende, anche nelle citazioni e nei titoli di alcuni testi, i temi e i temperamenti della sezione iniziale. Siamo di fronte a piccoli spostamenti del punto di osservazione, a sommovimenti lievi e subitanei che però arricchiscono o, meglio, amplificano i tentativi di captare quanto più ampio lo spettro delle frequenze foniche.

Si resta nell'ambito del rumore, del brusio, del suono, della voce, termini dello stesso gruppo semantico e perciò rifugio e guida nel percorso che Anamorfiche offre al lettore. Questa reiterazione quasi ossessiva nelle sue varianti serve al Nostro a comprendere i

[...]

...minimi

colpi di nulla,

colpi di niente

(come semplici

colpi di tosse).

 

Irregolari, brevi,

forse trascurabili...

[...]

(pag. 57)

 

          Le parole sono ormai logore, si assottigliano, e sempre più ci si approssima al singulto, al salmodiare sincopato, al mormorio inquieto e inquietante:

 

[...]

un lieve mormorare

s’accende come brace

inquieta tutt’attorno.

[...]

(2   7 x 12, pag. 58)

 

          Dove precipitano le parole? Da dove provengono i ricordi? Quanto resta di ciò che si comunica? E, poi, davvero si è nelle voci concitate che si inseguono o tutto si riduce a un brusio di sottofondo che parifica e omologa, che annienta?

Ancora una volta è il precipizio ‒ del silenzio, dell'inconsistenza ‒ a essere sfiorato e sfidato:

 

[...]

E ogni particella animata,

ogni minima dose d’esistenza,

pare persistere fioca, qui,

pare sopravvivere,

sfrontata e sicura ‒

                               tendente all’eterno ‒,

proprio perché privata del bisogno

innato

d’una prossima fine.

[...]

(pag. 63)

 

          Nella prospettiva relativistica tutte le dimensioni si annullano nel momento stesso in cui si manifestano. Ecco quanto dichiara la poesia di Mandolini, nella ricerca di comprendere il passato, il presente e il futuro, di individuarne il punto, diremmo "vocale", di incontro, di percepire nello schermo il pulsare irregolare, ci si rende conto che ciò che sta per giungere è già scappato in un altrove, in un inseguimento, quasi caproniano, che porta ancora una volta al vertice dell'abisso. Tutto è, nel punto (ndr: Calvino, ancora), e nel punto tutto è niente:

[...] 

è forse tutt’altro che inutile,

allora, insistere nel sognare

che tutto il tempo di tutti ‒

                                         passato, presente, futuro;

                                         il tempo dei vivi, quello dei morti ‒

si rapprenda in un unico punto

per poi perdersi prima

di assumere le sembianze,

spropositate,

d’un ricordo indelebile.

(pag. 64)

 

E', dunque, in questo momento della raccolta che affiora nel pensiero di chi legge un'immagine, che è forse l'immagine che più pressante tradisce in sé l'autore, il suo assillo, ciò che lo spinge a scrivere, a scommettere nel gesto del verso, sapendolo indelebile ma altrettanto labile; è la metafora del buco nero (altro non è che l'altra faccia della medaglia della pagina bianca?). La matrice "cosmica" della poesia del Nostro si svela candidamente e voltando pagina, non a caso, si diceva, si trovano, inevitabilmente, questi versi:

[...]

Non porterò niente né

nessuno quando verrò

inghiottito nel buco nero

disposto per me; quando

il mio spazio-tempo curverà

piegando

ogni limite conosciuto

fino a scomparire; quando,

travalicando

quello che viene detto

l’orizzonte degli eventi

cadrò vittima,

come crollando,

d’una gravità assordante

e insieme estrema

che mai e poi mai ‒

                                in nessun caso ‒

potrà essere

da alcuno compresa.

(pag. 65)

 

          Nell'"orizzonte degli eventi", in quello spazio senza spazio, in quel tempo senza tempo dove tutto si concentra e si annulla, ha posto lo sguardo questo poeta e come Achab è così giunto il momento di guardare negli occhi la balena bianca, in tutta la sua maestosa e violenta ferocia distruttiva. Attenzione, però, a non commettere l'errore di percepire questa visione come immateriale o onirica, non si credano questi testi come incasellati in un'extra contingenza. Non c'è nulla di pindarico nel volo interstellare della sonda targata Danilo Mandolini. La conferma di quanto appena affermato è tutta nella brevissima, quanto intensa, lirica metropolitana:

 

Milano: metro linea gialla.

 

Il binario; l’altoparlante...

L’altoparlante parla, alto,

parla con tono alto

(categorico),

parla, non ascolta e dice;

dichiara con voce di donna:

( ... )

«Non è permesso piangere, qui!»

(pag. 68)

 

          La consapevolezza di accostarsi sempre più al punto di annullamento, al cuore della tempesta:

 

Il rombo attutito

della tempesta in arrivo strazia

il tempo ultimo del sogno

che svela il risveglio;

lo spinge, lo fa rimbalzare

nel tempo irrisorio, teso,

frammentato d’adesso.

[...]

(pag. 64)

 

non porta all'arrendevolezza né alla calma disperazione, semmai l'autore ci viene a dire che siamo un po' come quelli che sono nell'occhio del ciclone. Tutt'intorno si avviluppa il non senso eppure, in quel cuore asettico e al limite dell'ancestrale, c'è di nuovo un fioco balbettio che è vita, che si autodifende, che comunque, ancora, c'è.

          Nel recensire A ritroso (la già citata autoantologia uscita nel 2013 per i tipi dell'obliquo) parlavo di poesia dell'asindeto (ndr: «Come due asintoti puntati all'infinito e in direzione contraria, Mandolini si muove alla ricerca dell'alto/altissimo percorrendo il basso/bassissimo, la galassia tocca tangenzialmente all'infinito il microcosmico, sempre in perpetuo equilibrio, appunto, tra il terreno e lo spirituale, tra le radici innestate a terra e i rami protesi al cielo») e oggi più che mai questo paragone lo trovo fondato e veritiero, la poesia di Danilo Mandolini, infatti, sa che per quanto sia puntata all'infinito ‒ che è un "infinito-niente" ‒, la poesia è ancora l'unico strumento che può dare un senso al contingente, perché a quel "niente" è possibile dare ancora un nome (fosse appunto "niente"), concepirlo come un nume.

          La sezione si conclude con un inserto in inglese che così interroga: «what does surface mean?». E' una delle tante voci esterne o citazioni che nel gioco dell'effetto doppler il poeta intercetta e fa sua. Da questa domanda ‒ perché è di domanda in domanda che muove Anamorfiche; si pensi all'incipit con quella cruciale che chiede «QUALCUNO SA DIRMI COS’E' LA MORTE?» ‒ giungono le successive Psichedelie, le Altre psichedelie della seconda parte del volume.

 

          Crocivia - (quindici blasfemie in loop), nell'intento di rappresentare un ipotetico dialogo degli uomini con il divino riproduce ‒ avverte in nota l'autore ‒ quello che può chiaramente apparire come il percorso delle stazioni di una via crucis. Siamo dunque a tu per tu con quel silenzio, silenzio fino ad ora adombrato, sedotto, suscitato. Siamo alla resa dei conti, all'atto finale. Se il contingente, con i suoi interstizi e le sue pieghe, i suoi anditi di vuoto e rumori, con il sottofondo di brusii e mormorii, ha condotto chi scrive a rilevare il rischio del silenzio come connaturato e inevitabile, come non sondare questo terreno, come essergli indifferente? Se non sappiamo, e non sapremo mai cosa c'è in superficie, allora perché non affacciarsi a osservare quanto è nel profondo?

          La ricerca poetica si rivela ancora una volta una ricerca vocativa, che vuole mettere a nudo la Voce, ne vuole individuare, proprio perché oggi è più che mai sommersa dal rumore e dal frastuono, l'identità. Come tutte le ricerche gnostiche, anche questa non è esente dallo scacco del fallimento, ma va da sé che non intraprenderla è di per sé una sconfitta.

Dunque il lettore si appresta ad ascoltare questa via crucis sui generis. Il contesto, a sottolineare una continuità sottotraccia, è ancora quello apocalittico e postumo, il linguaggio, a tratti quello tecnico scientifico delle "sorti progressive"; eppure l'attacco è frontale, senza fraintendimenti né riverenze:

 

Tu, tutto questo lo sai? E se lo sai

 perché non ti curi di parlarcene?

  Perché scendi a patti col silenzio? Perché?]

(pag. 80)    

 

Il rischio dell'estinzione, il bisogno inattuabile di colonizzare un altro pianeta per salvare il genere umano, spingono il poeta ad apostrofare Dio, fin da subito, come un'entità latitante e reticente; eppure la tensione orale non si spegne, la necessità di sollecitarne una presenza è costante, ed ecco la preghiera (non avevo parlato di salmodiare?) che non si può tacere, incessante e reiterata:

 

    tu... Tu dichiarati, manifestati, pronunciati,

   rivelati, almeno, come si rivelerebbe una bava di vento e,

  poi, fai finta di essere il vento, fai come se il vento fosse il balbettio del mondo,

 come se il mondo intero declamasse, sempre,

  a te indirizzate all’unisono, suppliche sottovoce...

(pag. 81)

 

e poi:

 

          [parlaci,

         parlaci come si parla a chi è senza sguardo,

        come si parla a chi, per scelta, rinuncia al proprio guardare;

       parlaci e svelaci ‒ per te non è difficile ‒

(pag. 82)

 

e ancora:

 

  [dicci... Dicci senza nulla tacere

 del perché si scelgono sentieri e dove

senza sosta questi si percorrono incontrando

 presenze che dal caso sono erose o altre

  che l’esistere come nati dalle madri ci affida ‒

   incontrandole ancora ‒ per salvarle dall’oblio...

    Confessaci, poi, del perché costantemente ignoriamo

     la brevità che prossima incombe

      e che presto o tardi muta

       in imprevista e difforme

        distanza.

 

         E senza alcun timore dicci, ancora,

          di quando ‒ come assecondando un’abitudine scontata ‒

           distinguiamo altre strade e

            anche per queste andiamo e torniamo, sì

             (torniamo e andiamo)...

(pag. 83)

 

in un crescendo, in un incalzante crescendo, disperato:

 

          [se non puoi rispondere,

           se non sai rispondere

            lasciaci, lasciaci immersi,

             lasciaci persi

              in quest’eco rovesciata che

               solo dentro si propaga, che

                è fatta di poche parole

                 a te mai rivolte e rimaste lì,

                  nella mente;...

(pag. 86)

 

    (se esisti, se esisti anche solo nascosto,

   esisti comunque, persisti

  e resisti ancora troppo,

 davvero troppo lontano da noi)]

 

Ma almeno mi senti?

Mi senti da lì?

 

Le vedi,

ovunque, le bandiere capovolte? 

(pagg. 92/93)

 

          Di fronte al pericolo dell'annullamento, di fronte a quel Silenzio frustrante e esausto, così spesso abitato dalla poesia di Danilo Mandolini, appare naturale questa richiesta di soccorso, di resistenza. Consequenziale al suo continuo ricercare parole di senso (che è poi il senso di ogni atto di scrittura) l'autore non può arrendersi all'indifferenza, al vuoto, e nel suo stesso evocarlo richiama una duplice facoltà che faccia di questo dio, un Dio, tanto loquace, quanto afono:

 

   [dacci un po’ di nulla,

     dacci tutto il nulla,

      dacci il tuo, di nulla,

       concedici, regalaci una porzione

        abbondante ‒ almeno adeguata ‒

         di nulla.

 

          (null’altro, senz’altro, vorremmo)

 

           In questo stesso nulla,

            però, poi

             come noi annullati]

(pag. 91)

 

          E' questa la bizzarra utopia a cui ha provato a dare significato Danilo Mandolini, quella di sapere che si vivrà per morire, si parlerà per creare un silenzio. La crocifissione è, d'altronde, il memento di un Dio capovolto che nel suo stesso morire si sostanzia, ed è forse proprio questa la bizzarra utopia a cui si ancora il poeta, nella speranza che anche il più piccolo verso crocifisso nella pagina bianca si faccia, eroicamente, eterno nel suo stesso dimenticarsi.

          Poesia ermeneutica, poesia gnostica, poesia alta. E di altissima qualità nel suo operare discreto, mite, per usare un termine caro a Danilo Mandolini; raffinatissima nella sua comunicatività.

 

          E così, di psichedelie in psichedelie, di silenzi in silenzi, di sconfitte in sconfitte si arriva all'atto conclusivo della raccolta. Una specie di appendice, Offertorio speciale - (nove bizzarrie impoetiche), che si dichiara subito come contro-canto, in antitesi a quanto esibito in precedenza. Eppure, ancora, di bizzarria in bizzarria (termine che esprime bene il tentativo sperimentale del "nuovo" Danilo Mandolini, che nuovo non è se si è compreso quanto finora dichiarato) la silloge del Nostro trova in questi testi conclusivi una sua circolarità conchiusa che rende bene l'idea della capacità dell'autore di saper operare in maniera meticolosa e artigiana, senza lasciare nulla di intentato.

          L'incipit ci aveva lanciato un'ancora apparentemente solitaria in un inserto declamatorio che così dichiarava: «è cauto l’atteggiamento delle borse» (pag. 13). Il riferimento al mondo della finanza, al mondo del denaro (altro dio sotto-traccia) prosegue nella breve sezione conclusiva che ci mostra, in una carrellata magistralmente ironica, una sequenza dedicata al nuovo tempio contemporaneo, quello delle grandi catene di distribuzione commerciale (da COAL a EURONICS, da LIDL a TRONY, passando per BOFROST).

          L'"offertorio speciale", gioco di parole sarcastico intorno al concetto di "offerta speciale", incarnata dal volantino, se da un lato crea un continuum ideale con la sezione precedente, rimandando appunto a un vocabolario pseudo-mistico, subito si palesa però, come detto, nel tendere verso una direzione di anti-liricità e di dissacrazione. Ancora una volta l'attenzione massima è sulla parola, sul suo logoro strumentalizzarsi nelle formule della réclame, in un bailamme pubblicitario che sempre più assurge a ostensorio di una neo divinità sfuggente e degradante, disumanizzante. Qui la critica sociale si fa sferzante, e seppur nel tono spesso sommesso di sfumata ironia, riesce a sconfessare il Re nudo e a denunciarne la sovversiva logica alienante e aberrante, il suo potenziale umanamente distruttivo:

 

L’uomo che nello zaino porta

i volantini colorati

non è mai

per più giorni lo stesso.

A volte

lo vedo arrivare,

a volte lo incontro,

a volte ‒

              soltanto quelle volte ‒

lo guardo negli occhi.

(pag. 101)

 

Anche io potrei, pensandoci bene,

offrirgli qualche cosa

in cambio o a pagamento.

Ho così tante parole raccolte

in freezer, conservate lì assieme

a tranci spessi di polvere.

(pag. 106)

 

          Nello spettro della mercificazione e della reiezione, la parola sembra più declinare verso una resa, verso un inchinarsi servile, perdendo non solo l'autorevolezza e la verginità, ma quasi il suo stesso valore identitario. Non più enunciativa ma semplice etichetta, vuota nella sua stessa precisione.

Qui, il già citato buco nero sembra essersi definitivamente materializzato e il silenzio incancrenito, nelle formule pubblicitarie, ci appare come un insieme di voci che tutto promettono e che nel promettere già deludono illudendo:

 

1 + 1 è scritto, in bianco

e in grande, sulle pareti

a picco delle mongolfiere.

1 + 1,

capisci? 1 + 1 che

non è 2; 1 + 1 che, lo sai,

non sarà mai 2!

1 + 1 è sempre uguale,

da SUPER COAL, a 1.

(pag. 102)

 

          Se i conti non tornano è perché, per Danilo Mandolini, il paradossale slogan della CONAD ‒ epigrafe dell'ultima sezione ‒, quella specie di ritornello che risuona ossessivo, «Persone oltre le cose», è amaramente falso se, poi, si finisce per riscoprirsi convenzionalmente omologhi nel testamentario grido del volantino:

 

I volantini, ora,

sono sparsi nella via, sono

abbandonati, stracciati al suolo.

Si sa che vengono lasciati

gli stessi per tutti ma,

adesso ‒

               è un dato di fatto ‒,

non distinguo più i miei

da quelli degli altri.

(pag. 101)

 

          Per usare un termine a tema, potremmo dire che, arrivata a questo punto, la poesia di Danilo Mandolini è approdata alle rive deserte del default. I radar accesi, l'orecchio assoluto, avvisano ora solo di mancanze e la parola si perde nel suo stesso ostentarsi...

 

          Sarebbe un amaro finale se ancora una volta il Nostro non si affidasse alla poesia e alla bellezza ‒ alla luce ‒ per riuscire a superare l'impasse e, con un colpo di coda, mostrarci la verità più occulta, che è poi sempre la stessa; la verità che si ripete in molti passaggi del lavoro, ovvero che non esiste esistenza senza precipizio, che non esiste vita senza il meglio della morte e viceversa.

Forse c'è un equilibrio nell'orizzonte degli eventi (lo stesso "orizzonte degli eventi" ‒ concetto collegato, in astrofisica, ai buchi neri ‒ in precedenza menzionato), forse si tratta dello stesso equilibrio che persiste nello spazio famigliare che abbiamo oltrepassato nascendo e subito dimenticato; ancora un interstizio, ancora un passaggio, una soglia, e quanta luce vi troviamo, quanta libertà:

 

Ed è familiare, sì, questa luce; è familiare perché si tratta di quello stesso quotidiano bagliore al quale, poi, non si presterà più troppa attenzione, tanto consueto appare, appunto, fin dalla prima volta in cui lo si scorge.

(pag. 115)

 

«Lo vedi? Lo vedi l’ulivo solitario in cima a quel dosso? Un po’ più a sinistra, segui la mano; ecco...

Lo sai che è proprio lì, in quel punto preciso, che stasera il sole, lento, cadrà?»

(pag. 116)

 

Sfolgora il metallo

nell’urto che s’abbatte,

nel colpo che si piega

a caccia d’altra luce.

 

(...il maglio della vita,

il meglio della vita

che nella morte muore

pensando d’esser altro)

(pag. 117)

          è di questo bagliore dimenticato, di questo urto e delle sue ambigue prospettive, questo essere altro, che ci parla Danilo Mandolini. Di questo ci parla la sua poesia, suggestiva e innovativa, plurale ed evocativa. Lo fa con una ricercatezza e una maestria che appartiene a pochi, lo fa recuperando registri talmente distanti tra loro da potersi incontrare agli antipodi ‒ è appunto, la sua, una poesia dei contrari. Il registro formale della scienza e dell'astronomia, quello famigliare del quotidiano, quello medio della pubblicità, di internet, passando per la preghiera, l'orazione, l'elegia... Insomma, un canto che sa rinnovarsi continuamente e che, nel suo inseguire le voci che ascolta e riproduce, sa assolvere al più arduo compito dello scrivere: dare alla voce che offre versi, una dignità, un'etica.

Alessio Alessandrini

 

 

 

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